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Italia, 2005
di Roberto Benigni, con Roberto Benigni, Nicoletta
Braschi, Jean Reno, Tom Waits
Così cocente è stata la delusione di
buona parte del pubblico e della stragrande maggioranza della critica
per Pinocchio, così eclatante lo scarto tra
le ovazioni per La vita è bella e le aspettative
disattese dalla trasposizione collodiana, che il nuovo film di Roberto
Benigni si presenta al varco carico delle responsabilità direttamente
mutuate dal flop, reo di non aver saputo reagire adeguatamente alla
dura prova della seconda opera. Perché anche se ufficialmente
inseritasi nella filmografia del comico toscano come settima regia,
la deludente favola burattinesca proseguiva di fatto quel nuovo corso
artistico intrapreso cinque anni prima con il premiato film sullOlocausto.
Un bel fardello dunque per La tigre e la neve, ma ancora
di più per il Benigni autore, che a più riprese, in questo
incostante, narrativamente debole e spesso più che sofferto film,
evidenzia la ricerca e laffinamento, addirittura problematico
e a tratti coraggioso nelle scelte, di unidentità artistica
da personalizzare dopo gli eccessi burattineschi. Si ritorna di balzo
alle strutture collaudate de La vita è bella,
alla semplicità dellimpianto drammaturgico, alle determinanti
costruzioni telefonate di sceneggiatura, alla congeniale (ma forse un
tantino abusata) commedia degli equivoci, alle scansioni narrative un
po scaltre e un po grezze. E se può passare che Benigni
non sia il primo autore di valore a rifare sempre lo stesso film, questo
riaffrancarsi alla scrittura cinematografica sdoganata nel 1997 certo
ravvisa il bisogno e la strategia, magari anche un po facile visto
la scelta del contesto bellico, di una garantita riconquista del pubblico
deluso.
Dove certamente Benigni non si è abbandonato al passato, persino
rischiando, è nella problematica contenutistica. Stavolta è
quanto mai riscontrabile un decadimento della dualità che ne
aveva contraddistinto il trittico leggero (ma da non dimenticare
e non sottovalutare affatto) de Il piccolo diavolo
- Johnny Stecchino - Il mostro. Dualità
della poetica, generata allora, forse con maggior genuinità,
dal contrasto costante tra il dissacrante spirito malizioso del saltimbanco
e la sua innata, incontaminata purezza umana capace di suggerire ottimismo
senza ostentarlo; tra lo spirito moralmente incontaminato e il peso
addomesticante di una società caricaturale, simboleggiata dal
mostro urbano della periferia cittadina. Dualità delle apparenze
e delle opinioni, rivelata dal meccanismo del doppio (il mafioso e lo
sprovveduto in Johnny Stecchino) o dal doppio binario
narrativo generato dallequivoco di partenza (Il mostro)
e dalla duplicazione diegetica interna (la guerra come gioco in La
vita è bella). Con La tigre e la neve,
pur rimanendo i contrasti più elevati (la bellezza della vita
contro lorrore della guerra), il tratto benignano si fa più
diretto, interessato al fine ben più che al mezzo: la storia
damore, motrice del film, che non si sviluppa perché esaurita
sin dallinizio (un cedimento strutturale che lescamotage
narrativo del finale vorrebbe rinforzare); e la res poetica, fin troppo
esternata, insistita, dialogata e propinata da scolorire persino nel
tocco, sopravvivendo, con grande difficoltà, soltanto negli episodi
di un sogno che recupera il passato cinematografico dellattore
- dalla forma felliniana allapparizione di Tom Waits - per poi
dileguarsi a film inoltrato senza lasciare unimpronta rilevante.
Il cinema di Benigni per guadagnare specificità e maturità
sembra divenire unidimensionale e lineare. E probabilmente lo
sforzo di un artista che sta cercando la sua forma-cinema. Non più
come comico ma come cineasta e autore, e lo dimostrano linedita
rappresentazione della morte e una inattesa disillusione nei confronti
della guerra. Contribuiscono anche alcuni squarci di messa in scena
più ariosi e meditativi, con integrazioni in CGI più controllate
e soddisfacenti rispetto alla precedente, straripante prova. Ancora
inadeguata lestetica: le illustri e occasionali collaborazioni
con i più diversi direttori della fotografia, per quanto funzionali,
hanno solo accertato che Benigni possiede un suo sguardo e unidea
precisa di découpage, che però non regge alla misura duomo
della messa in quadro allenniana di Di Palma ed entra in affanno al
cospetto dello Spinotti più sofisticato. Fabio Cianchetti propone
qui una sintesi accettabile, ma il sentore è che manchi ancora
unintesa compiuta tra storia e fotografia.
Altra zavorra da sganciare per permettere al Benigni regista di raggiungere
le quote del Benigni poeta rimane poi il dominio del comparto attoriale,
qui veramente in ribasso. Raramente si è visto il comico sprecare
un comprimario come Jean Reno così maldestramente, quasi riducendone
le fugaci apparizioni a pretesto per una propria performance drammatica
in conclusione del blocco orientale. E anche comprendendo la presenza
costante della Braschi a fini strutturali (Nicoletta è veramente
per Benigni un codice stilistico), la discutibile prova dellattrice
contribuisce a fiaccare gli estremi dellintreccio. Magari è
proprio per questo unico bisogno di presenza ispiratrice
che lautore non ha problemi ad immobilizzarla a letto per buona
parte del film, ripiegando sulla propria vis comica (che sembra addirittura
trattenuta) e provvedendo da sé ai momenti più gustosi
della pellicola. E il toscano ci riesce così bene che alla fine,
la sensazione dominante è che il Benigni mattatore (cui basta
una sola, causticissima battuta sulle armi di distruzione di massa per
assicurare al film limmancabile graffiata politica), con il Benigni
regista, lattore e lo sceneggiatore impegnati altrove o distratti
da altri afflati, salvi il film.
Per evitare un simile tour de force e una tale disequilibrio di intenti,
procedimenti e tematiche, basterebbe al poeta-cineasta attenersi, per
le prossime occasioni cinematografiche, al motto elargito dal protagonista
Attilio ai suoi studenti: cercare la bellezza scegliendo. Selezionando.
In poesia come al cinema.
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