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Wo hu cang long,
Taiwan / Hong Kong / USA / Cina, 2000
di Ang Lee, con Chow Yun-Fat, Michelle Yeoh, Zhang
Ziyi, Chang Chen
Il wu xia pian (letteralmente "film
di cavalieri erranti") è uno dei generi centrali del cinema
cinese, esplorato da quasi tutti i cineasti e in continua rigenerazione.
È un cinema tradizionalmente incentrato sulle gesta di guerrieri
che si fronteggiano fisicamente sul piano delle arti marziali, ed eticamente
sui grandi temi dell'amicizia, dell'onore, dell'amore difficile e del
potere. È un cinema action solidamente basato sulla
cultura orientale della sinergia corpo/mente, una fucina di racconti
epici a metà fra lo storico e il fantastico, degli esercizi di
stile nella rappresentazione dello spazio, del tempo, del movimento.
Attraversando gli anni questo cinema, che per comodità limiteremo
alla produzione di Hong Kong (del resto la percentuale più alta
del mercato), ha esplorato zone espressive sempre più intensamente
furiose, fatte di ritmi vertiginosi, duelli sempre più elaborati,
situazioni e personaggi sempre più estremi. In questo senso esemplare
è uno dei picchi più recenti del genere, quello Swordsman
2 (1992), prodotto da Tsui Hark (the Blade) e diretto da
Cing Siu Tung (Storia di fantasmi cinesi), mirabolante e picaresco
spettacolo di giovani eroi scavezzacollo, maghi che si evirano per acquisire
poteri immensi, tocchi di impossibile melò romantico, abissali
duelli sospesi: "forse il migliore dei film 'con gente che vola'
" (Alberto Pezzotta). Inoltre in questa pellicola, per certi versi
più evidentemente che in altre, il wu xia pian, da una
tradizione più marcatamente realista, viene definitivamente
traghettato nel mondo del fantastico e contaminato col soprannaturale.
Dunque il genere che ormai il pubblico tradizionale si aspetta ha dei
canoni ritmici e dei tempi collaudati, e difficilmente scende sotto
questi vertiginosi livelli di velocità. Ed è in questo
senso che la Tigre e il dragone arriva, per molti versi inaspettatamente,
a dare una spinta evolutiva, a gettare dei ponti, ad aprire nuove prospettive.
Il film di Ang Lee è una co-produzione Hong Kong-Taiwan, sorretta
dai capitali di forze come la Sony Picture Classic (che, a dispetto
del nome, è indubitabilmente occidentale) e la Good Machine (che
ha sostenuto tutti gli altri film del regista ed è responsabile
di una buona parte del cinema indipendente americano meno conciliante),
nonché da una compagnia il cui nome è la perfetta sintesi
del discorso che stiamo facendo: la Columbia Pictures Film Production
Asia, che sta attuando una precisa politica di più vasto avvicinamento
del cinema cinese all'occidente (vedere per credere lo Zhang Yimou de
La strada verso casa). Poi bisogna aggiungere che il film è
l'opera di un regista che per tradizione tratta tematiche e ha uno sguardo
a cavallo tra l'estetica del mondo da cui proviene (Taiwan) e quella
del mondo all'interno del quale ha studiato cinema e teatro (Illinois
e New York), tanto che tutti i suoi film hanno avuto una rilevante distribuzione
in occidente.
Con queste premesse lo sguardo di Ang Lee sul wu xia pian non
può che essere decisamente contaminato.Tanto contaminato che
molto del pubblico abituale (cinese ma anche occidentale) si trova a
disagio con un film che dilata e rallenta la velocità consueta
del genere, apre insistentemente a un realismo dei sentimenti in gran
parte inedito ed espresso da una recitazione evidentemente più
misurata di quella di gran parte del wu xia pian classico.
Un film che epicizza la materia narrativa mettendola in scena in luoghi
che a volte sono spazi espressivi saldamente conosciuti dal genere (il
bosco, la scuola-tempio), altre volte confinanti in modo straniante
con scenari diversi da quelli a cui la tradizione attinge più
frequentemente (il deserto, che ha più di un richiamo a visioni
aride e intense del western americano). Un film che porta prepotentemente
in primo piano figure femminili forti e precisamente disegnate. Un film
dal romanticismo così chiaro e forte da essere un oggetto a se
stante.
Eppure sarebbe riduttivo e sbagliato parlare semplicemente di un wu
xia pian occidentalizzato, almeno quanto riduttivo e sbagliato
è parlarne come di uno classico. C'è nel film un'irrazionale
tensione all'equilibrio, una vera e propria ricerca di bilanciamento
dei personaggi, quasi che il volteggiare fra le cime degli alberi o
sui tetti di un edificio sia la manifestazione esteriore di questa necessità.
In particolare due dei protagonisti, Li Mu Bai (Chow Yun Fat) e Shun
Lei (Michelle Yeoh), "forse riescono ad esprimersi completamente
solo quando combattono" (Ang Lee), oppressi come sono da scelte
di vita che li costringono a reprimere i loro sentimenti più
profondi. L'attenzione del regista ha messo a fuoco per l'occhio occidentale
quanto nel wu xia pian la dimensione del combattimento come
balletto, i movimenti del corpo e le articolazioni della grammatica
cinematografica (inquadratura, fotografia, movimenti di macchina) come
espressione diretta del sentimento dei personaggi in senso astratto,
formale. Scelta che può generare nello spettatore le emozioni
più forti perché meno mediate, quasi primitive; le stesse
che i protagonisti ricercano col combattimento, quelle che hanno - come
recita "Tigre in agguato, drago nascosto", la traduzione letterale
del titolo originale - nascoste, in agguato dentro
loro stessi.
In Matrix il cinema si rallentava all'infinito per permettere
anche all'occhio meno allenato di cogliere queste sensazioni, svelando
così la propria matrice, anche a costo di perdere in grazia ed
armonia. Ne la Tigre e il dragone si può permettere di
trovare un passo intermedio che gli consente di salvare ed esaltare
grazia e armonia, mantenendo una leggibilità che gli concede
di catturare con successo un'attenzione più ampia.
In quest'ottica il film di Ang Lee è dunque un ponte, una "tigre
in agguato", un "drago nascosto" che tende il suo fascino
da un capo all'altro del mondo, ben consapevole delle cose che occulta
strategicamente (rispetto alla tradizione) e di ciò che invece
tiene in agguato dietro e dentro le sue forme: "Questo film
è una sorta di sogno della Cina, di una Cina che probabilmente
non è mai esistita", dice il regista.
E, si potrebbe aggiungere, sogno di un cinema che probabilmente, ancora,
non esiste.
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