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Terminator 3:
Rise of the Machines, USA, 2003
di Jonathan Mostow, con Arnold Schwarzenegger, Nick
Stahl, Kristanna Loken, Claire Danes, Earl Boen
Attenzione! Questo articolo contiene numerose anticipazioni sul
finale del film.
Per James Cameron, dopo la visione della terza parte della saga i cui
due primi capitoli ha scritto, diretto e prodotto, Terminator
3 è "in una parola: grandioso".
Forzando il gigantismo produttivo e spettacolare nel nome del credo
"the bigger, the better", in gran parte promosso dallo stesso
Cameron e sostenuto senza pausa dagli alfieri Bruckheimer e Bay, Terminator
3 viene proiettato alla ribalta da un record stabilito ancor
prima dell'inizio delle riprese: quello del budget approvato, ossia
i soldi che la produzione ha deciso di investire nel progetto, il più
alto mai licenziato da uno studio (170 milioni di dollari). Diversi
film sono andati oltre quella cifra, ma solo durante la produzione:
Titanic aveva un budget approvato di 100 milioni di
dollari ed è arrivato a spenderne 200.
Tutti questi soldi sembrano stare lì per coccolare, classico
sostituto affettivo di genitori ricchi e poco sensibili, una schiera
di orfani: una saga, un uomo - John Connor -, e una macchina - il T-800.
La saga orfana dell'autore (James Cameron), John orfano di madre (Sarah
Connor è morta "fuori scena") e di padre ("l'uomo
del futuro" Kyle Reese), il T-800 orfano di creatore (James Cameron).
Da questa prospettiva deriva una possibilità unica: calcolare
il peso cinematografico di una serie "theatrical" basata completamente
sulla visionarietà di un regista-sceneggiatore che contemporaneamente
tiene a bada l'industria, tasta il polso al pubblico con precisione
inverosimile e mette in scena un cinema personale, poderoso e modernissimo.
James Cameron, in questo senso detiene un altro record: è l'unico
grande Autore del cinema moderno che abbia sfruttato l'industria allo
sfinimento e con coerenza inaudita, uscendone sempre vincitore e proponendo
un cinema emozionante e profondo che il pubblico più vasto recepisce
pienamente. Dunque, quanto sia definita e complessa la visione di Cameron
è evidente nella cura narrativa, spettacolare e linguistica che
manca a T3. Siamo di fronte al godibile, divertente
e fracassone sequel di un racconto di grosse proporzioni archetipiche
che è entrato nell'inconscio collettivo come il metallo liquido
del T-1000 nella carne umana delle vittime di Terminator 2.
T3 è uno scherzo pesantissimo e leggero, che
tenta con difficoltà (e parzialmente fallendo) di essere all'altezza
di personaggi e situazioni resi vivi ed efficaci nel passato da Cameron.
Ma poiché "il futuro non è scritto", tanto meno
nell'industria hollywoodiana - dove è il mercato che comanda
- non bastano due atti di rara coerenza e creatività a garantire
un seguito dalla stessa forza.
Paradossalmente, mentre per James Cameron il tema del film ruotava proprio
attorno alla possibilità di costruirsi da soli il proprio avvenire,
e alla fine della storia i protagonisti sventavano sempre l'apocalisse
con la forza della loro volontà, nell'orfano adottato da Jonathan
Mostow e dagli sceneggiatori di the Game John Brancato
e Michael Ferris, è esattamente il contrario: tutto ciò
che era stato evitato dai Connor e dal T-800 è inevitabile, tanto
che l'unica speranza degli eroi, dei "puri di cuore", per
salvare il futuro capo della resistenza è mentire. Come
il sistema Skynet inganna i suoi progettisti e i militari, facendo credere
di essere una potentissima arma di sicurezza mentre è proprio
il grimaldello più grande della Storia che metterà in
scacco chi doveva proteggere, il T-800 fa credere a John di star facendo
ogni cosa per salvare tutto il mondo, mentre, paradossalmente, salverà
solo lui (e la sua futura moglie Kate). Il realismo pragmatico della
macchina si unisce quello disperato del padre di Kate, il responsabile
ultimo e in buona fede dell'apocalisse Skynet: entrambi non credono
in una possibilità di salvezza globale immanente, e pensano a
mettere in salvo solo i propri cari (o gli obiettivi della propria programmazione),
dando "fiducia" al futuro già scritto, alle bombe già
lanciate, all'umanità già decimata. Gli eroi non riescono
a fermare la rivoluzione delle macchine. Il futuro andrà come
è stato scritto: ci sarà una dittatura e una resistenza.
"Ti devo insegnare di nuovo tutto", dice il ventenne
John al nuovo T-800, il cui spessore psicologico viene bruscamente riazzerato
dal film ai livelli di sensibilità emotiva di un arma da fuoco
che aveva all'inizio di T2. Ma ora John non può
"insegnare di nuovo tutto", come nell'episodio precedente,
alla macchina per farne un padre. Non ce n'è l'urgenza, diegetica
e affabulatoria. Perché il mondo finisce, e la terra è
ora il "worst case scenario" che apriva il primo e il secondo
Terminator, solo per essere smentito, nella visione cameroniana, dall'intero
movimento narrativo, dall'essenza stessa del progetto. Il movimento
narrativo di T3 è invece quello della più
grande (ma non necessariamente la migliore) "fun ride" del
mondo, il cui biglietto viene pagato alla fine della corsa, ed è
la promessa di un cranio sbiancato schiacciato dal tallone di metallo
di un esercito di macchine. L'orfano John è ora davvero solo,
condannato ad una lotta per la sopravvivenza senza fine o prospettive
con una donna a cui era destinato ma di cui non ha avuto la possibilità
o la plausibilità di innamorarsi (come invece era avvenuto fra
suo padre e Sarah). Terminator 3, il bel bambino viziato
e un po' egoista, affogato dal denaro e dalla mancanza d'affetto, spinto
nell'agone dall'urgenza dello show business, matura di colpo, con un
effetto sbilanciante e lacerante che ribalta la visione originaria con
un modernissimo cinismo non conciliante e privo sia del moralismo classico
hollywoodiano sia di una tregua armata cameroniana. Un "unhappy
ending" che traccia i limiti dell'ardita operazione autoriale di
James Cameron e, narrativamente, propone l'inquietante, nuova franchezza
apocalittica di un industria che rispecchia sempre di più la
società in cui si muove, nel momento in cui quest'ultima non
ha nemmeno più bisogno di mentire come i personaggi delle sue
storie, e si comincia a permettere un'agghiacciante trasparenza, anche
se dettata da stupidità e arrogante incuria, che rende evidenti
gli interessi economici che regolano pace e guerra nel mondo. Il futuro
è scritto da chi detiene il potere, da impuri che non mentono,
e sembra ormai inutile perfino evocare una realtà diversa, magari
spingendosi avanti con la fantasia, dimostrando così agli spettatori
che tali sono al cinema come nella vita. In tre parole, orfani di futuro.
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