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Le temps du loup,
Austria/Francia, 2003
di Michael Haneke, con Isabelle Huppert, Patrice Chereau,
Beatrice Dalle, Lucas Biscombe
Innanzitutto, cè la sensazione, progressiva, ineluttabile,
di sentirsi abbandonati. Abbandonati da un cineasta che a partire da
Funny Games, primo film distribuito in Italia, aveva
infilzato tre capolavori, e la cui personalità intensa e coerente
si sgretola ora sotto i nostri occhi, non solamente perché Il
tempo dei lupi è un film non riuscito, ma perché votato
da subito a una deprecabile autocombustione autoriale. Haneke ha varcato
la soglia oltre la quale la sospensione narrativa si trasforma in noiosa
immobilità, il raggelamento esasperato delle emozioni diventa
un arido esercizio incapace di coinvolgere, la ricerca sovversiva di
una rappresentazione della crudeltà e della disperazione un gioco
sado-maso fine a se stesso.
Il tempo dei lupi è un tempo senza passato e
senza futuro: in un posto imprecisato, la popolazione è braccata
dalla mancanza dei beni primari a causa di una devastante emergenza
imprecisata e attende limprecisato arrivo di un treno che dovrebbe
rivelarsi salvifico. Da qui, un presente fatto di violenza e sopraffazione,
in cui neanche la degenerazione delle dinamiche del gruppo di sopravvissuti
riesce però ad acquistare una reale consistenza drammatica: la
strategia autoriale della sottrazione, dei depistaggi, dei riferimenti
criptici e dei dettagli simbolici scade in fumisteria fastidiosa e inerte,
degna del catastrofismo di maniera del peggior Bergman. Perché
abbandonare tracce narrative fondamentali come lincontro fortuito
dei tre protagonisti con la famiglia che li ha derubati trucidando il
padre? Perché permettere ad attrici come la Huppert o Beatrice
Dalle di aggirarsi senza scopo sullo schermo aderendo a personaggi privi
di qualsiasi direzione? A mancare è un effettivo respiro corale
che convogli le storie dei sopravvissuti, sopravvissuti alla catastrofe
(un disastro ambientale? Una guerra?) e sopravvissuti alle audaci ellissi
della narrazione, tentando di dare un impatto sostanzioso anche alla
frusta morale dellhomo homini lupus.
Restano innegabilmente alcuni momenti folgoranti: la prima notte senza
il capofamiglia nel casolare destinato alle fiamme, il tentato suicidio
del piccolo Ben, la sequenza dellarrivo del treno e il conseguente
finale aperto, che funzionerebbe, però, solo in un film che già
di per sé non fosse completamente sfaldato, se lattesa
beckettiana dei superstiti non si fosse trasformata nel frattempo in
un chiacchiericcio incapace di essere crudele come assurdo, e le cui
spropositate ambizioni filosofiche non suonino false o addirittura ridicole.
La fine (fisica) di una civiltà al capolinea morale, che riscopre
gli ancestrali rapporti di potere basati sulle necessità più
strette, è un soggetto che può ancora funzionare previa
sentita rivitalizzazione, altrimenti rimane solo loccasione per
mettere in mostra una bancarotta artistica neanche ben camuffata.
Peccato: per Haneke e per un pubblico che ancora avrebbe bisogno di
pellicole non consolatorie, il cui carattere sinceramente estremo compensi
le pratiche anestetizzanti (o troppo facilmente aggressive) di tanto
cinema corrente.
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