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Sweet Sixteen,
Gb, 2002
di Ken Loach, con Martin Compston, William Ruane, Annmarie
Fulton
I sedici anni del titolo sono quelli che compie Liam alla fine del film,
glieli augura la sorella Chantelle: è lei l’unico appiglio, prima
rinnegato, quando il ragazzo ha perso la famiglia e gli amici e ha la
polizia alle calcagna. Loach (con il suo sceneggiatore Paul Laverty)
lascia la situazione in sospeso, facendo terminare la parabola di Liam
in riva al mare, con i legami affettivi sfilacciati, un destino quanto
mai incerto, la perdita di qualsiasi riferimento: ma Sweet Sixteen,
il più amaro e ruvido tra gli ultimi film del regista, non rinuncia
per questo a una struttura solidissima, a una scrittura limpida e accattivante,
a conferma della puntualità con cui il metodo Loach permette
una strada personale e fruttuosa al cinema di impegno sociale.
Innanzitutto, la narrazione trova un miracoloso equilibrio tra un percorso
forte, definito con precisione e legato a personaggi a tutto tondo,
e ampi margini di interrogativi lasciati in sospeso: Paul Laverty sa
intrattenere il pubblico, sa portarlo nel film e coinvolgerlo, ma sa
anche quando scegliere di non dare delle risposte, di lasciar morire
una sottotraccia narrativa (il flirt mai consumato tra Liam e l’amica
di Chantelle), di evitare un atteggiamento moralistico verso la carriera
criminale del protagonista, che di per sé non determina alcuna
catarsi o redenzione. Questo gioco tra struttura aperta e chiusa è
evidente anche nell’utilizzo parziale e distorto, ma comunque funzionale,
di generi come il melodramma (la famiglia in dissoluzione) o il film
di gangster (l’ascesa di Liam, soprattutto nella sequenza “riassuntiva”
dei motorini in giro per la città a spacciare, è perfettamente
esemplare).
Lo stesso discorso va fatto per lo stile, che, come sempre in Loach,
punta a calibrare un’impronta di realismo medio, ugualmente lontana
dalla sofisticazione hollywoodiana e dalle asperità estreme del
Dogma o dei fratelli Dardenne: la ruvidezza dell’impianto generale è
quindi addolcita da un découpage classico, da un uso della musica
mai straniante, ma di mansueta sottolineatura, da un’illuminazione neutrale
e diffusa, quasi democratica.
Sia le scelte narrative che quelle formali fanno comunque riferimento
a un preciso atteggiamento verso lo spettatore (e verso il cinema, com’è
ovvio): Loach vuole essere didascalico senza essere retorico o coercitivo,
vuole essere realista senza compiaciuti abbrutimenti, vuole forzare
le convenzioni spettacolari senza per questo rinunciare a catturare
il pubblico. Una simile filosofia della visione, il cui risultato è
una delle formule migliori di un cinema di denuncia civile, può
essere tenuta insieme solo da uno sguardo forte e personale come quello
del regista inglese, benché egli stesso si collochi a metà
strada tra quello che si definisce “autore” e un mestierante del cinema
capace di sfornare con puntualità un film a stagione, senza prevaricare
mai la messa in scena o i limitati mezzi produttivi a disposizione.
Loach somiglia dunque ai suoi film, proprio grazie a tale equilibrio
tra istanze opposte: un equilibrio capace di rinnovarsi con una freschezza
e una capacità di presa sul reale che probabilmente non ha uguali
nel cinema contemporaneo.
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