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Spirit: Stallion of
the Cimarron, USA, 2002 di Kelly Asbury e Lorna Cook,
animazione
L'incedere di Spirit è talmente lineare che il primo atto
del film è un coacervo di elementi decisamente irritanti. Priva
dell'appeal classico disneiano degli animali antropomorfi che parlano,
la vita dello stallone protagonista è una squillante fantasia
di cavalli che si muovono su sfondi digitali guidati da un valoroso
e antipatico capobranco - Spirit, appunto - che si preoccupa perfino
di rimbrottare due giovani puledrini che giocano affettuosamete a mordicchiarsi
le orecchie, in un ambiente che è l'incarnazione stucchevole
di quella che il film ci vuole convincere dover essere la massima aspirazione
equina in campo di habitat. C'è come un senso di distanza creato
da un setup narrativo esageratamente nitido e univoco, aggravato dalla
mancanza di elementi umani con cui il pubblico possa identificarsi in
qualche modo. L'unica cosa a guidare lo spettatore in un'esposizione
altrimenti muta è la voce fuori campo di Spirit e le espressioni
facciali umanizzate degli animali. Un gruppo di cavalli con derive espressive
semiantropomorfe, quindi non più solo cavalli e non ancora completamente
personaggi. Insomma, il passo per entrare in un mondo abbastanza alienante
è, almeno per lo spettatore adulto, piuttosto grosso. Ma le cose
cambiano quando Spirit viene catturato dall'esercito americano, e la
storia comincia, rivelando efficacemente il tema principale: bisogna
perseguire la propria libertà ad ogni costo. L'epopea di Spirit
e del suo "compagno" umano indiano diventa così un
racconto di frontiera semplice e dall'intensa immediatezza, quasi fordiano
nel mettere a fuoco le spazialità dei luoghi e la limpidezza
dei personaggi. Spirit diventa il simbolo dell'opposizione natura-civiltà
attraverso la sua semplice contrapposizione con set e oggetti classici:
il recinto dei cavalli del fortino dei soldati, la locomotiva issata
sulla montagna e poi in caduta libera sul protagonista (con un movimento
emotivo herzogiano di imprevista efficacia in un cartone animato di
questo tipo), i canyon dell'inseguimento fra l'esercito e i due nativi
- l'indiano e lo stallone, inseguimento che diventa l'emblema del film
per almeno due ragioni. La prima è che è la sequenza che
più di ogni altra si impegna a descrivere il movimento e l'inseguimento
come disperata ricerca di libertà, ricordando alla platea il
senso della messa in scena cinetica di uno dei topoi più incrollabili
del racconto popolare a struttura narrativa forte. La seconda è
che è il momento in cui limpidamente si mette a fuoco l'enorme
contraddizione espressiva di Spirit, che è anche
il dilemma storico che vive tutta l'animazione contemporanea: la transizione
analogico-digitale. Infatti Spirit fa un uso massiccio e imbarazzantemente
scoperto di sfondi digitali, che hanno senso nell'imprimere la carica
di movimento al ritmo del racconto, ma contemporaneamente sembrano un
escamotage produttivo un po' poveristico per raggiungere l'effetto voluto
senza quella cura raffinata che in prodotti del genere è ormai
uno standard. Quasi come se fosse un compromesso poco riuscito nonostante
l'efficacia globale del film, una mancanza di sforzo mascherata da dichiarazione
estrema di linearità e semplicità, peraltro perfettamente
sensata considerando gli intenti del film. Che sono quelli di raccontare,
forse fuori tempo e fuori luogo, ma comunque con indubbia efficacia,
il pathos della frontiera, ritrovando il modo di un cinema classico
tramontato da decenni ma intimamente sentito dai realizzatori, tanto
da allontanare ogni sospetto di stanco manierismo. Spirit
rimane, anche per questo suo essere nella sfera espressiva opposta,
una scelta produttiva misteriosa e particolare nell' "epoca-pixar",
un'epoca fatta di esplosioni di gag, forme, ammiccamenti, in una mimesi
estrema della furia scoppiettante degli stessi spettatori a cui primariamente
è destinato il cinema d'animazione hollywoodiano, là dove
Spirit persegue con asciuttezza la necessità
di un respiro più semplicemente mitico ma ugualmente intenso.
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