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USA, 2004
di James L. Brooks, con Adam Sandler, Paz Vega, Téa
Leoni, Cloris Leachman
Sotto lo sguardo ironico e pungente di un cineasta come James L. Brooks,
la cultura ispanica trapiantata in California rivela una Los Angeles
che annaspa nella propria artificiosità, nel suo genuino cinismo
mascherato da finta moralità e nel progressivo sfaldarsi del
buon senso comune. Flor (Paz Vega), ragazza madre messicana che fugge
con la figlia Cristina (Shelbie Bruce) da una patria assillante di ricordi
e malinconie, approda a servizio dellaltolocata famiglia Clasky.
Cerca linserimento civile ma trova lo scontro culturale, sociale
e morale. Levolversi dei rapporti domestici tra le due fazioni
si irrigidisce a tal punto che Cristina, nel suo racconto in voice-over,
parla di screzi e sotterranee tensioni tipiche della soap-opera:
John (Adam Sandler), ristoratore di rinomata fama e marito votato alla
repressione matrimoniale, trova in Flor la possibilità di un
sentimento salutare e liberatorio, ma lamore per i due figli lo
costringe allautocensura emotiva; la moglie Deborah (Téa
Leoni), che a sua volta tenta lavventura extra-coniugale, scarica
tensioni infinite sulla figlia in sovrappeso e si rifà su Cristina,
accolta in casa insieme alla madre e coccolata come erede ideale da
sventolare con orgoglio al quartierato piccolo-borghese.
Per Brooks, insomma, contano ancora una volta le situazioni umane, il
microcosmo familiare come punto di partenza e di arrivo per lo scandaglio
psicologico sociale. Purtroppo stavolta lestremizzazione caratteriale
dei personaggi varca la linea di confine tra satira e grottesco con
troppa facilità e poco controllo, delineando con compiutezza
e intelligenza solo il rapporto madre-figlia di Evelyn (una brillante
Cloris Leachman) e Deborah, svolto con maggior efficacia anche del centrale
- ma inconsistente e prolisso - confronto tra Flor e Cristina. Una tematica
deccezione nella filmografia del cineasta statunitense, che, dopotutto,
anima i suoi testi fin dallesordio registico di Voglia
di tenerezza e che indubbiamente ha la meglio anche sulla questione
dellintegrazione sociale - evidentemente non così cruciale
ai fini di sceneggiatura e infatti ben presto convertita in unindagine
sulle diversità di classe. Stretta tra incomprensioni linguistiche
e umane, ipocrisie scambievoli e un senso morale devastante (il suo
amore corrisposto per John si riduce ad un bacio sospeso dalla realtà,
in una delle sequenze più ispirate del lungometraggio), Flor
capitola per unulteriore, nuova esistenza: ella è infatti
incapace di sacrificare la propria etica allaffettazione inconscia
dellélite West Coast (nella cui rappresentazione Brooks,
sovente, calca decisamente la mano), la cui unica barriera con il proprio
universo sembra in fin dei conti essere tanto sottile quanto
trasparente per chi, come lei, sa cercare il confronto e aprire una
semplice porta tra le due culture, senza dare nulla per scontato ed
evitando di sbatterci il grugno (come accade invece alla cugina, immigrata
in America per vivere al sicuro nel quartiere spagnolo).
Di fronte a Spanglish si riesce a capire meglio come
la produzione di Una figlia in carriera, terza e travagliata
regia di Brooks del 94 , sia riuscita a sforbiciare senza troppi
problemi un musical improbabile guadagnando un dignitoso dramma sentimentale.
Infatti anche questultima opera appare come ibrido scindibile
in due approcci narrativi distinti, un intreccio spesso debole e continuamente
in cerca del giusto ritmo, che apre sul character-study, vira
verso la commedia degli equivoci e delle situazioni per poi riemergere,
fuori tempo massimo, alla definizione emotiva delle due protagoniste
emigranti. Ma poco importa.
Come poco importa che una sbozzo troppo grossolano abbandoni Adam Sandler
alle prese con la caricatura di se stesso o che Téa Leoni, nonostante
lincredibile performance, rimanga un mostro iper-nevrotico
maggiormente congeniale allambiente dei passati prodotti seriali
del regista (perfetta tra le mura del Sunshine Cab Company di Taxi),
piuttosto che al contesto cinematografico.
Perché un cineasta come Brooks, che non teme la lunga distanza
tra un progetto e laltro (cinque film in ventanni di carriera),
riesce ad interessare anche con una prova imperfetta, soprattutto se
continua a porsi domande mai banali senza la pretesa di dover esaurire
un argomento, degnando la sceneggiatura di momenti godibilissimi, mai
superficiali, rifuggendo la collaudata patina della commedia sofisticata.
E poi perché la perfezione del precedente Qualcosa è
cambiato sarebbe stata veramente difficile da bissare. Così,
con Spanglish, il regista dimostra di non inseguire
il successo di botteghino, ma una vena autoriale che non si esprime
a comando.
Ce ne fossero.
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