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id.,
Spa, 2001
di Bigas Luna, con Jordi Mollà, Leonor Watling,
Eduard Fernandez
Tempi duri per gli erotomani irriducibili al cinema: forse perché,
nonostante tutto il novecento sia percorso da una connotazione fortemente
liberatoria ed eversiva delleros (dalle avanguardie a Marcuse
e Deleuze alle mutazioni corporee di certa fantascienza filosofica),
la cosiddetta civiltà dellimmagine (in questo caso sarebbe
meglio dire del feticcio), è riuscita a digerire simili stimoli
libertari (libertini) nel proprio ventre molle e a ritradurle in estetiche
condivise quanto pacchianotte. Se l eros, nellottica di
certi autori doveva continuare a costituire un tabù da infrangere,
uno spauracchio informale e distruttivo, la pulsionalità infinita
di un corpo che desidera fino ad autodistruggersi, oggi il tabù
non cè più, anzi linforme della pulsionalità
infinita si è ritradotto nella forma perfetta e plastica del
corpo patinato e opportunamente digitalizzato (i ritocchi al computer
non si fanno mai mancare e addio smagliature).
Insomma la digitalizzazione dei corpi e dellerotismo ha dato vita
ad un nuovo canone della forma perfetta, levigata e traslucida, mutatis
mutandis da nudo neoclassico, con in più lesotismo
da villaggio vacanze e le posture ginnico-sessuali da calendario. Chi
ne ha fatto le spese sono i vari Brass, Bigas Luna, Aranda e altri registi-autori
che del desiderio e delle sue illimitate valenze edonistiche avevano
fatto il cardine di una riflessione estetica; provenivano da Luomo
ad una dimensione di Marcuse e dall Antiedipo
di Deleuze e Guattari e sono finiti rinchiusi in un genere per guardoni
a buon mercato, ripiegando su meste logiche di consorteria (del tipo
leros è mio e ne parlo solo io), un marchio di fabbrica
tra tanti insomma.
Aranda fa una Carmen da telefiction, solo con molti
metri quadri di epidermide in più spiattellati allo spettatore,
la messa in scena rimane da fogliettone e il puro corpo Carmen rimane
vittima della Sindrome di Malena, cioè
decade da icona ineffabile e funebre a pura dispensatrice di amplessi.
Tinto Brass, più cinico e disincantato, pensa, forse con amarezza,
che il desiderio, al giorno doggi, sia inagibile e ci sia spazio
soltanto per il voyeurismo distratto e distaccato del porno, e al porno
regredisce, magari cercando di ammiccare e far capire che lui comunque
abbia classe e sia nutrito di buone letture. Così dai suoi film
emana una strana atmosfera contraddittoria, come aggirarsi per un salumificio
in cui la filodiffusione manda Mozart e Da Ponte, nonché citazioni
da libertinismo bianco (essendo, quello sadiano e decadente, libertinismo
nero), come se il menefreghismo potesse ammantarsi della propria erudizione
e usarla come scusa. E Bigas Luna? Il suo caso è emblematico
e, se vogliamo, ancora più irrisolto. Letteralmente imploso con
il leggendario Bambola, omaggio onanistico ai glutei
della Marini e vertice dellimmaginario da norcineria anni novanta,
con un solo film pagava una lenta ma inesorabile erosione di ispirazione,
ed una eccessiva fiducia nelle immagini mostrate, da Prosciutto
Prosciutto, troppo indeciso tra Bunuel e Almodovar ai fellinismi
di La teta y la luna.
Anche per lui, la ricerca del carnale alla fine aveva portato allabuso
di anguille, capitoni e ammennicoli del genere.
Se l eccesso è un codice oramai condiviso nell immaginario,
il suo effetto eversivo non può più essere raggiunto e,
come diceva Breton a Bunuel Oggi è sempre più
difficile scandalizzare qualcuno. Anche in questo Son de
mar, più autoriale e sentito rispetto alle ultime prove del regista
spagnolo, il problema è di ordine figurativo e non viene risolto.
Come ritrarre il sesso, l eros, i corpi? Purtroppo Bigas Luna
nutre eccessiva fiducia in una solarità mediterranea e mitografica
e nel nudo plastico (codici e segni oramai condivisi) e la storia di
un triangolo tragico tra Martina (Leonor Watling), Ulises (Jordi Mollà)
e Sierra (Eduard Fernandez) funziona male, non tanto nel versante narrativo
e melò (che a Bigas Luna interessa solo come canovaccio), quanto
sul piano della visione, la cui eleganza non trafigura, ma rimane leccata.
Leros manca perché locchio denota e non desidera,
si accontenta della bellezza programmatica che gli passa davanti e nemmeno
servono granchè gli sbuffi surreali di Azcona. Resterebbe il
mito di Ulisse, la simbologia del viaggio, del ritorno del rimosso,
della fuga; resterebbe la bellezza liquida e informe del mare (instabilità
pulsionale= instabilità visiva), ma tutto è troppo allegorico
e i simboli galleggiano in una certa disattenzione visuale. Forse anche
per ritrovare l eros al cinema bisogna credere di meno alle immagini
e partire dalla manipolazione del linguaggio e dei codici, altrimenti
non resta che lonanismo con metafore. E in sala rimane solo un
voyeur impigrito
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