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the
Shipping News, USA 2001
di Lasse Hallstrom, con Kevin Spacey, Julianne Moore,
Judy Dench, Scott Glenn
Nota: questo articolo contiene numerosi dettagli della trama del
film, che è molto densa e piena di svolte. La lettura potrebbe
quindi rovinarne la godibilità. Se non lo avete già fatto,
andate al cinema e poi tornate qui.
La famiglia visionaria
L'acqua è uno schermo, una lente o un peso, e il cinema ci tiene
a ripeterlo da sempre. L'acqua è qualcosa che altera, favorisce
o schiaccia la qualità della visione. Dello spettatore e, quindi
e anche viceversa, del personaggio. Quoyle (Kevin Spacey) ha problemi
a vedere la sua vita da quando il padre l'ha gettato in un lago dal
colore ambiguo, un po' azzurro un po' rosso, per imporgli di nuotare,
imponendogli e condannandolo, invece, alla sua stessa, tragica e insensata
visione della vita priva di speranza. Dal quel momento Quoyle percorre
la sua esistenza sotto il pelo della coscienza, mentre l'acqua si increspa
davanti a lui, legando e confondendo il suo percorso immobile, dove
l'immagine e la giovinezza del protagonista si sciolgono in se stesse
sino "alla soglia della maturità", in un eccezionale
e puntualissimo utilizzo del morphing come perfezionamento del dispositivo
della dissolvenza narrativa temporale. Dissolvenza narrativa che, a
sua volta, si va a confondere con l'intuizione di una dissolvenza emotiva
di grande incisione. Siamo negli stessi territori, anche se logisticamente
opposti, del morphing finale che svelava la vecchiaia di Matt Damon
in Salvate il soldato Ryan. Ma mentre lì il salto temporale
portava ad una domanda che suonava più o meno: "la mia vita
ha avuto senso?", qui si interroga su una non meno tragica constatazione
di immobilità e di distanza rispetto al futuro: "la (mia)
vita avrà senso?". Se il vecchio Ryan cercava il (giusto)
conforto e amore nei ristretti limiti della sua famiglia per fronteggiare
l'incomprensibile insensatezza della guerra e della vita, il "maturo"
Quoyle tira le somme per progettare il futuro di una vita passata a
tenere i sentimenti fuori portata secondo i dettami di una famiglia
disillusa.
E, aprendosi in fine al mondo con la semplicità suicida di un
bambino, in un attimo Quoyle si trova catapultato in un turbine emotivo
da lui accolto con l'ingenuità della sua mancata maturazione
psichica. Il protagonista si trova a voler creare una nuova "famiglia",
ancora una volta insensata e necessaria. In questa seconda famiglia
l'incatturabile elemento femminile Petal (Cate Blanchett) non è
che un'invenzione di Quoyle (come nella prima l'unica voce riportata
era quella maschile e la figura materna era assente dalla realtà),
che però produce una cosa molto reale: una figlia. Questa famiglia
non è che un'impossibile improvvisazione visionaria, una pre-visione
inevitabile che apre le porte del viaggio dell'Eroe bambino nel suo
passato, per colmare vuoti e raddrizzare storture, un eroe il cui obiettivo
è riequilibrare il rapporto fra lui stesso e la realtà,
attraverso l'amore e la morte. E' il primo atto della storia, quello
più "girato" e denso, dove il regista Lasse Hallstrom
concentra invenzioni visive, costruisce mirabolanti sintesi narrative
e, soprattutto, disegna la peculiare temperatura emotiva del film attraverso
la messa in scena di una serie di personaggi di estrema semplicità
ma grande profondità, lineare riconoscibilità ma reale
multidimensionalità. Ne viene fuori una sintesi speciale della
avvolgente melodrammaticità de Le regole della casa del Sidro
e della profondità appena sopra le righe di Chocolat,
dove i volti e i corpi degli attori sembrano incarnare perfettamente
l'intensa "linea chiara" delle personalità dei protagonisti,
che sono insieme credibili soggetti di empatia quanto evidente frutto
di un gioco narrativo. La limpidezza della visione di Hallstrom e dello
sceneggiatore Robert Nelson Jacobs (che per Hallstrom aveva già
adattato Chocolat) concede al film uno sguardo completamente
privo di giudizio sui personaggi, senza che alle scelte di questi ultimi
manchi la forza emotiva del coraggio, dello sbaglio o della cattiveria.
Mutilazioni e riconciliazione
La morte del primo assurdo amore non realmente ricambiato (o meglio,
rapidamente ed unilateralmente esaurito) lascia in Quoyle un nuovo vuoto
di senso, e porta ancora alla consapevolezza dell'inadeguatezza di un
modello familiare scelto imperfettamente, immaturamente. Questo evento
non fa che sottolineare un'altra inadeguatezza, quella della prima famiglia
"naturale", occupata interamente dall'ingombrante ma sfuggente
figura paterna, che non ha saputo preparare Quoyle alla vita. L'esaurimento
di due nuclei imperfetti combacia con perfetto tempismo. Ma dalla morte
scaturisce una prima rinascita. Dopo una serie di lutti simbolici (le
rinunce psicologiche che l'hanno macerato per quarant'anni), l'eroe
si muove spinto dall'ennesimo lutto non elaborato (la morte di Petal),
questa volta anche reale: un amore che l'ha prima illuso di riparare
a e poi ha aggravato le mutilazioni emotive che hanno bloccato la sua
trasformazione in essere umano. Nel limbo della terra natia, nel gelo
di una casa letteralmente ancorata a terra per resistere alle impossibili
condizioni di vita del luogo, una casa simbolo assoluto del peso psicologico
familiare, Quoyle si ritrova inavvertitamente a far combaciare queste
mutilazioni con quelle di un'intera comunità, e in particolare
di altre due donne: la zia Agnis (Judy Dench) e soprattutto la vedova
Wavey (Julianne Moore), la cui esperienza, simmetrica rispetto a quella
di Quoyle, è la testimonianza liberatoria della possibilità
di un'evoluzione personale. Il protagonista si trova così a confrontarsi
con una molteplicità di punti di vista che vanno a formare i
due mondi che nella sua crescita sono mancati come equilibrato punto
di riferimento: quello femminile e quello maschile, quest'ultimo incarnato
dal gruppo di redattori-amici del giornale locale, fra cui spicca la
figura paterna di Jack Buggit (Scott Glenn). E la fiducia in se stesso
necessaria per fare i passi decisivi verso la riconciliazione con la
propria storia e il proprio dolore, Quoyle la trova anche grazie alla
scrittura all'interno del giornale. La pratica creativa che scopre di
poter dominare è sottilmente narrata dal film come una specie
di dialettica terapeutica con se stessi, la scoperta di poter essere
che avviene grazie alla scoperta di saper scrivere. Questa suggestione
letteraria è messa in scena con sottile ironia, inquadrata com'è
nel contesto del minuscolo giornale di paese "The Gammy Bird"
e nella necessità di creare notizie che siano contemporaneamente
racconti: Quoyle vive il giornalismo senza problemi morali come un moderno
sostituto della pratica del cantastorie, come dire dell'infotainment
talmente provinciale da perdere qualsiasi caratteristica negativa (distorsione
dell'informazione) per acquisire lo status di legittima operazione creativa.
Ibridazioni narrative
Questa visione è possibile anche perché tutto il film
vive in una sfera narrativa mitica molto vicina a quella della favola,
grazie anche alle caratteristiche velatamente parapsicologiche riguardanti
la presunta veggenza di alcuni personaggi. E' un'atmosfera ibrida che
somiglia a certe esplorazioni kinghiane o certi tentativi - decisamente
più raggelati - alla John Sayles (vedi Limbo e Il segreto
dell'isola di Roan), imbevuti di fascino fantastico ma con la forte
necessità di raccontare con realismo nette ferite psichiche.
Hallstrom riesce a condurre il gioco perfettamente, inventandosi un'originalissima
e calibrata furiosità degli elementi tragici, che attraversano
il paesaggio desolato di Terranova esplodendo fuori dai personaggi e
provocando ancora morti, rinascite, tempeste inventate e reali, facendo
cadere edifici, abbattere barche. E, soprattutto, creando situazioni
e legami al limite della credibilità ma che risuonano incredibilmente
di realtà e conducono alla commozione.
Personaggi e storie accumulano così con naturalezza una grande
densità e stratificazione di trame e temi che accompagnano, come
un controcanto, il plot principale relativo al percorso di Quoyle, andando
a costituire una fluida coralità che raramente si è vista
così strettamente necessaria al racconto. La precisione delle
sfumature psicologiche dei protagonisti vibra nella semplicità
di alcune intuizioni registiche e attoriali, tanto che i tre personaggi
principali lasciano un'efficace caratterizzazione di se con la semplice
cifra degli sguardi: contorto e rivolto su di se quello di Petal, aperto
e rivolto oltre i bordi dell'inquadratura quello di Quoyle, intenso
e fortemente centrato verso macchina da presa e spettatore quello di
Wavey. Queste immagini dalla intensa efficacia iconica sono messe in
scena in modo calibratissimo e partecipe, in un equilibrio tra personaggi
e ambienti realizzato con poche e tempestive intuizioni ritmiche, spesso
interne alla costruzione dell'inquadratura e sempre di una riuscita
incisiva ma discreta.
Il tutto all'interno di una struttura narrativa solidissima e impeccabile,
retaggio anche del romanzo di E. Anne Proulx (in Italiano tradotto come
Avviso ai naviganti) da cui è tratto il film. E alla fine
l'acqua che ondeggia, quella cade, quella in cui si cade, quella che
provoca la morte, quella che battezza la nascita di un amore, quella
dal colore ambiguo e quella limpida, si rivela testimone chiarificatore
dello svelamento salvifico e doloroso del mistero del passato dei personaggi,
e quindi di loro stessi.
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