Quando l’amore brucia l’anima

Dal biopic alla soap opera
di Giulio Frafuso

 
  Walk the Line, Usa, 2005
di James Mangold, con Joaquin Phoenix, Reese Whiterspoon, Robert Patrick


Aspettando con trepidazione l’imminente e indipendente Capote, e soprattutto l’interpretazione che ne può offrire un caratterista di razza come Philip Seymour Hoffman, siamo intanto costretti a testimoniare del collasso artistico che Hollywood sta perpetrando nei confronti di un genere potenzialmente fruttuoso come il “biopic”. Dopo il fiasco economico del poderoso e contraddittorio Ali di Michael Mann, le Majors Companies hanno preferito edulcorare le successive cine-biografie da ogni possibile “interpretazione” polivalente da parte dei cineasti mesi al timone delle produzioni, lasciando il campo a spettacoli assolutamente “politically correct”, anche se aggiornati alle tendenze narrative ed alla spettacolarità richiesta dal cinema contemporaneo. Ed ecco che, se lo scorso anno abbiamo avuto la deprimente resa artistica di Martin Scorsese con the Aviator e l’affettata ma in fondo efficace furbizia di Ray di Taylor Hackford, il fondo sembra averlo toccato questa “soap opera” dedicata alla figura di un altro mitico musicista, Johnny Cash, raccontato soprattutto nel suo amore travagliato per la collega June Carter. Quasi a decretare la pochezza e la superficialità dei film appena citati, ecco l’incetta di incassi e di premi internazionali che Walk the Line ed i lungometraggi appena citati si sono accaparrati, o che sono destinati a prendere. Già, perché anche questo melenso ed inerme musical-melodramma (impossibile riferirci a quest’opera chiamandola con un titolo che non ha nessun senso come quello italiano) ha superato in America i 100 milioni di dollari d’incasso, e si è accaparrato 3 Golden Globes e ben 5 nomimation ai prossimi Academy Award.
James Mangold, che ha sempre avuto nelle sue corde registiche una predilezione per un tipo di messa in scena molto “low profile”, quasi invisibile, sembra questa volta aver volontariamente azzerato tutte le sue capacità per arrivare a proporci uno spettacolo che sembra in tutto e per tutto una cartolina in movimento: discreta ricostruzione scenografica, fotografia leccata al punto giusto, confezione tecnica di tutto rispetto. Nulla di più. Risultato? Un film senz’anima. La correttezza di ogni componente, anche di quelle non accennate sopra, non riesce in alcun modo a dotare Walk the Line della minima capacità di empatizzare con lo spettatore. La figura del mitico Johhny Cash viene ritratta in maniera del tutto convenzionale, rendendo un personaggio potenzialmente esplosivo una figura sbiadita nella sua retorica. La narrazione della storia possiede la piattezza necessaria a produrre una sorta di auto-edulcorazione del film stesso nei confronti delle tematiche che racconta: ed ecco così che il dolore per la perdita del fratello, il rapporto conflittuale con la figura paterna, l’amore “che brucia l’anima” per June e soprattutto la dipendenza da stupefacenti, diventano quasi semplici pretesti per tirare avanti la pellicola per due ore e passa. Per fortuna,ogni tanto sparsi nel film, ci sono i concerti, dove la messa in scena di Mangold riesce quanto meno a “scaldarsi”, scegliendo sapientemente di stare appiccicata ai volti ed alla voce di Joaquin Phoenix e Reese Whiterspoon. Già, perché se questo inutile Walk the Line ha in cima a questa recensione una stellina invece della bomba, ciò è dovuto alle intense interpretazioni dei due protagonisti. E se ancora una volta Phoenix da prova del suo innegabile talento “isterico”, il cuore pulsante del film è la sorpresa Reese Whiterspoon, appassionata e struggente come mai prima d’ora l’avevamo vista.

Se avete già visto Ray potrebbe risultare quasi inutile spendere i soldi del biglietto del cinema per beccarsi, in forma di una puntata di soap-opera dilatata a lungometraggio, la versione bianca e pulita dell’artista geniale e dannato. Magari usate quei soldi per andarvi a ripescare cine-biografie anche abbastanza recenti come Ali, Nixon, Malcolm X, e scoprirete come anche Hollywood sapeva interrogare la storia e la società americana, ed attraverso essa interrogarsi.