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Italia, 2003 di
Roberto Faenza, con Iain Glen, Emilia Fox, Jane Alexander
A ben vedere di materiali intriganti in un soggetto come quello di Prendimi
lanima se ne potevano ricavare fin troppi. Non solo e non
tanto la figura di Sabina Spielrein, classico personaggio al di là
di ogni convenzione, come si suol dire fuori dagli schemi, costante
archetipica del biopic, soprattutto quando si accosta ad arte e scienza.
Piuttosto era interessante mettere in evidenza il contrasto che opponeva
una scheggia impazzita come appunto la Spielrein ad un sistema di valori
chiuso ed asfittico come quello della borghesia di inizio novecento
e delle sue propaggini totalitarie
(Forse tutte le società? Siamo al Disagio della civiltà
intuito da Freud?). E Faenza almeno a livello di intuizioni(non a livello
di pellicola, chè quello purtroppo in Italia è un altro
paio di maniche), da questa traccia degli argomenti di approfondimento
li aveva pur tirati fuori, anche se la sue tesi odoravano di già
sentito, proveniendo da fonti ben precise (Foucault, l Antiedipo
di Deleuze Guattari). Prima di tutto era riuscito a catturare il momento
storico in cui la psicanalisi si trasforma da rivoluzionario metodo
di conoscenza e liberazione, rispetto alle precedenti teorie psichiatriche
(terribile il manicomio in cui viene rinchiusa Sabrina ad inizio film),
in instrumentum regni, controllo sociale sulla patologia mentale, con
il beneplacito dei suoi stessi padri nobili, negando ogni empatia tra
analista e paziente. Di conseguenza veniva adombrato il sospetto che,
dietro la necessità terapeutica, l analista innestasse,
più o meno consapevolmente, un rapporto demiurgico col paziente,
vagamente assimilabile a quello regista-attore, meccanismo atto a condensare
ogni possibile tracimazione pulsionale del malato(l amore stesso
veniva apparentato da Freud e Jung alla psicosi). In questo universo
congelato clinicamente, la donna, con la sua volontà amorosa
e caotica avrebbe dovuto costituire il contrappunto istintivo alla logica
maschile che tendeva a ghiacciare gli stati d animo in forme e
formule (anche se viene accennato che proprio l analisi junghiana
sostituirà allo scientismo freudiano una specie di panteismo
su base emotiva). Non è un caso che la Spielrein per ben tre
volte nel film si trovi bloccata da un interdetto maschile: Freud le
sottrae Jung (qui l interdetto è duplice perché
Jung stesso accetta l imperio del suo maestro e della moglie),
Stalin e i suoi scherani le chiudono l asilo, Hitler e i suoi
soldati le tolgono la vita. Purtroppo tutte queste belle intuizioni
rimangono sulla carta e non passano mai dall inchiostro alla celluloide.
Faenza denuncia la solita incapacità dei cineasti italiani di
incarnare realmente visceralità morbosa e pathos nella pellicola.
Proprio in un film che vorrebbe denunciare la mutilazione dell
amour fou in nome di formule scientifiche, la messa in scena è
corretta quanto illustrativa, didascalica, tutta trine, merletti e chincagliera
di porcellana con cui sorseggiare il tè, (a mezza via tra Ivory
e Zeffirelli). Prima di tutto Faenza soffoca la vicenda biografica vera
e propria in una struttura alla Quarto potere, inserendo l inutile
vicenda della nipote Marie, che cerca notizie della consanguinea in
Russia (anzi né rivive la vicenda nelle intenzioni registiche).
I due piani temporali ed emotivi non si intrecciano mai, rimangono meccanicamente
giustapposti. In secondo luogo, quando rievoca la relazione tra Sabrina
e Jung, Faenza si abbandona ad un romanticismo da feuilleton, con fotografia
dal pastoso plasticismo, crescendo drammatico di rito e sottolineature
metaforiche da manualetto freudiano(imbarazzanti l amplesso nel
foyer di un teatro e un dialogo amoroso davanti alla Giuditta di Klimt).
Risultato:uno sceneggiato di Canale5 girato correttamente e correttamente
interpretato. Terzo difetto, nella seconda parte del film, dopo lobbedienza
coatta di Jung alla moglie e a Freud (che non si vede mai, ma è
come se si sentisse il suo stentoreo vocione baritonale e superegoico
incombente sul capino del povero allievo), la pellicola si sfilaccia
in lunghe ellissi temporali, limitandosi a descrivere per sommi capi
l attività terapeutica della donna nella Russia sovietica,
con la costruzione dell asilo bianco. E se il film indovina due
momenti forti(l asilo bianco in rovina ridotto a bordello e la
sinagoga di Rostov vuota) il tono resta di superficiale rievocazione
documentaria. Al furore romantico della prima parte si sostituisce l
elegia libertaria dell asilo bianco, la scuola che Sabina aprì
nella Russia
sovietica e il furore antitotalitario rivolto contro la polizia politica
sovietica, che l asilo lo distrusse (Stalin non si vede mai, ma
è come se in questa scena echeggiasse il suo plumbeo vocione
baritonale quanto autocratico
) e contro i nazisti che nel 42
sterminarono nella sinagoga di Rostov la comunità ebraica locale
di cui Sabina faceva parte (Hitler non si vede mai ma è come
se nella Sinagoga risuonasse il suo astioso vocione baritonale e pure
sterminatorio). Il tutto condito con simbolismi facili facili (Jung
che in entrambi i momenti sopra descritti vede dei dobermann inseguire
un cervo, che sia lAnima mundi?). Certo non si pretendeva Cronenberg,
ma certo dai fantasmi dell inconscio e della storia evocati dalla
pellicola qualcosina in più la si poteva cavar fuori. Purtroppo
pare che, almeno in Italia spesso, troppo spesso il lavoro registico
sia limitato alla decorazione di una sceneggiatura con immagini di specchiata
levigatezza, ma comunque inutili. Forse sarebbe materiale per un saggio:
Il tabù dell immagine nel cinema italiano, ma lo dovrebbe
scrivere un cineasta o uno psicoananalista? Attendiamo tempi (o transfert)
migliori.
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