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id.,
USA, 2006
di Wolfgang Petersen, con Josh Lucas, Kurt Russell,
Jacinda Barrett
Confermando la tendenza di molti remake del momento, Poseidon
(che ripropone un film del 1972, Lavventura del Poseidon
di Ronald Neame) si configura come una scommessa, una sfida lanciata
da quei grandi nomi del cinema-industria - e Wolfgang Petersen vi appartiene
di buon diritto - che mostrano assoluta sicumera nel non seguire le
orme dei padri fondatori, e pur se nominalmente sembrano ripercorrere
sentieri già battuti, lastricati dal viatico del successo commerciale
e non, a ben vedere da quella rotta si distaccano sensibilmente.
Se il film di Neame resta in qualche modo incagliato nelle memorie avviluppanti
del cinefilo, lo fa in virtù di una manciata scarna di punti
di forza, presto detti: primo tra tutti, il grimaldello emotivo di facile
e sicuro effetto tipico di tutti i disaster movies, specie
quelli più verosimili. Senza andare a scomodare cataclismi oltre
lorlo dellesperibile (come fece, non pago, lo stesso Neame
nel 1979 con Meteor), la catastrofe ordinaria contiene
in sé una delle risorse di catarsi per rappresentazione più
forti, immediate ed accessibili al contempo. Il Poseidon, Titanic dei
nostri giorni, viene colpito da unonda anomala, si rovescia, muoiono
in migliaia mentre scandivano il conto alla rovescia verso il nuovo
anno. Scene di orripilante mietitura da parte di una morte che ha le
sembianze dellacqua, lacqua come forza fisica, impattante,
che spinge e ribalta e intrappola. Secondariamente: la vita che questa
catastrofe si appresta a stroncare con grande spolvero di mezzi deve
essere raccontata, la narrazione deve generare credibilità, produrre
immedesimazione rendendo tangibili le storie di chi ci permette di vivere
per procura quelle sciagure. E quindi i personaggi. Lattenzione
per la delineazione della loro psicologia, i loro tragicomici vissuti,
la plausibilità della mimica del dolore, dello sgomento: servono
gli attori, oltre che i personaggi. E infatti nel 1972 avevamo un prepotente
Gene Hackman (difficile trovare aggettivi meno che lusinghieri per Hackman
in quel decennio), avevamo Ernest Borgnine, avevamo Shelley Winters.
In ultimo: lo specifico del film in oggetto, la filosofia scenografica
dellupside down, funzionante a due diversi livelli.
Se londa anomala ribalta il transatlantico, imbottigliando i superstiti
in una precaria bolla daria premuta dallacqua in ogni direzione,
allora tutto ciò che era su diventa giù, con ogni conseguenza
a derivarne. La salvezza è scendere nelle viscere della nave,
giù fino alle eliche stesse, perché questo significa nel
nuovo, perverso contesto, risalire alla superficie, avvicinarsi, scendendo,
al mare aperto, alla speranza di soccorsi. Questo al livello della struttura
narrativa. A livello della sintassi scenica e fotografica, invece, linteresse
del film di Neame era proprio il dischiudersi visivo di una teoria di
ambientazioni concepite in modo tale da essere contemporaneamente familiari
e difformi, creando dissonanze interessanti e divertenti. Lalbero
di Natale: una stalattite che spunta dal soffitto; il lampadario: un
salice piangente che cresce storto e pencolante, al centro del pavimento.
Cè tutto questo nel remake di Petersen? Purtroppo no: non
lattenzione al veicolo della catarsi, il personaggio, tratteggiati
come sono questi nuovi con una sciatteria quasi imbarazzante, tanto
da rendere tutto il primo atto assolutamente superfluo (cosa che mai
dovrebbe essere in un disaster movie, eppure si rischia facile il deja-vu
con questo regista, basti ripescare dagli abissi dei ricordi linizio
de La tempesta perfetta). Il cast per primo lamenta
e appalesa questa mancanza: Josh Lucas dimostra di essere al meglio
quando è biomeccanica appendice di qualche aereo superintelligente;
Kurt Russell ha ormai da tempo esaurito i crediti maturati coi vecchi
fasti, ed è ormai un morbido faccione imbolsito, afflitto, forse,
dalla stessa sindrome da viso di caucciù che ha colpito anche
Tom Hanks; di certo qui lo script non lo aiuta a ritrovare turgore e
nervi. Kevin Dillon, fratello di Matt, interpreta lantagonista
umano, la personificazione di quella parte dellanimo più
meschina ed egoista che gli eroi si sforzano di combattere, non meno
della morte liquida; ma pur trattandosi di una parte strutturalmente
importante nella storia, è affidata ad un paio di micragnose
battute e ad una caratterizzazione così scontata da rasentare
il disagio.
Né è sfruttato appieno il concetto che è lo specifico
della storia, quellupside down di cui sopra. Lo si capisce, lo
si deduce dalla trama, ma non lo si vede, non ci è permesso di
giocare come facevamo nel 1972, come bambini che guardano la stanza
a testa in giù, e neppure la sceneggiatura si avvale di questo
potenziale bonus. Le scenografie sono solo un tripudio di devastazione
(leggi: confusione), e ciò che veramente regna incontrastato
nella concezione del designer è la profusione di cadaveri ammassati
scompostamente, come tutto il resto delle rovine e delle suppellettili.
Allantiordine dellidea originaria subentra, esautorandolo,
il disordine della mattanza, la tabula rasa della fossa comune improvvisata
nel casinò.
A conti fatti, ciò che resta in piedi - non i personaggi, non
la scenografia innovativa - rispetto al paradigma originario è
il disastro come viatico per la catarsi. Claustrofobico, angosciante,
perfino spietato in alcuni punti, come se i realizzatori avessero voluto,
in più di unoccasione, infierire, accanirsi sui superstiti,
e quindi sullaudience. Un affanno artificiale, quasi strappato
con la forza, può restare nella gola di chi vede Poseidon,
ma è roba di minuti, è la chimica delle fobie. Restare
intrappolati in un cunicolo, aver paura dellacqua, della folla,
di essere lasciati indietro, dalla sorte o dai biechi, estemporanei
compagni di sventura. La paranoia attivata premendo sui tasti esatti,
lì in basso, nel midollo allungato. Poi, più niente.
Scegliendo di premere - soltanto - quei tasti Petersen mostra di avere
olfatto nel perseguitare la più remunerativa tra le leve emotive
di un film come Poseidon, ma questa verticalizzazione
impietosa, che sceglie una tematica e sacrifica le altre, si associa
ad una visione sedata del cinema, passiva, che sollecita il nostro cervello
rettile tramite sofisticati elettrodi, lasciando insoddisfatto tutto
ciò che lo sovrasta: il corticale, lemozionale superiore,
listanza epica.
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