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id., Usa, 2001
di Tim Burton, con Mark Wahlberg, Tim Roth, Helena Bonham Carter, Michael
Clark Duncan, Kris Kristofferson, Estella Warren, Paul Giamatti
Il più grande errore che potreste fare andando a vedere Planet
of the Apes è quello di aspettarvi un colossal hollywoodiano
in cui però traspare chiaramente anche il tocco personale d autoriale
del suo regista, cosa che Tim Burton ci ha da sempre abituato ad aspettarci.
Purtroppo stavolta non è così, o meglio non lo è
abbastanza. Strano, stranissimo esperimento, questo del cineasta americano
più bizzarro dei tempi recenti: tornare a dirigere un film “su
commissione”, soprattutto poi dopo il successo imprevisto e tutto personale
di Il Mistero di Sleepy Hollow. Era dai tempi del primo Batman
(a detta dello stesso regista, il film che lo ha meno soddisfatto e
più tormentato) che l’autore non si piegava infatti in maniera
tanto evidente alle esigenze della politica economica di una Majors.
Cosa lo avrà spinto ad accettare di dirigere il remake del film
di Franklin J. Schaffner del 1968? Probabilmente la possibilità
di portare avanti alcune sue tematiche principali, che comunque in Planet
of the Apes sono presenti: l’essere diverso, “altro”, addirittura
mostro (ma stavolta i mostri sono le scimmie o gli umani?); la sottomissione
a delle leggi sociali castranti ed impersonali, ecc. Il problema è
che in questa pellicola le suddette tematiche sono state appena accennate,
ed in maniera anche piuttosto sommaria, per lasciar posto ad un prodotto
di fantascienza abbastanza scontato e di routine, che punta troppo facilmente
all’effetto visivo e tralascia i sottotesti: sia ben chiaro, non è
che non ci si diverta a vedere il film, tutt’altro; il gusto dell’immagine
di Burton rimane comunque sopraffino, puntando un questo caso ad una
certa rozzezza della messa in scena, dove costumi, scenografie e il
trucco di Rick Baker, uniti alla sempre efficace fotografia del grande
Philippe Roussellot, contribuiscono a dare all’opera quella parvenza
da costoso B-movie che tanto è cara al genio del cineasta. Il
ritmo del montaggio è serrato, e la storia procede spedita, senza
appunto badare troppo agli aspetti problematici che la (pessima) sceneggiatura
avrebbe potuto sollevare. Rimane comunque il dubbio di fondo: perché
Burton ha voluto confezionare in tal maniera quello che forse è
il suo lavoro più impersonale, e perciò meno rischioso?
Anche la scelta del muscoloso ed inespressivo Mark Wahlberg, stella
in ascesa dal costo limitato ma garanzia di buoni incassi (vedi La
Tempesta Perfetta), sembra decisamente orientata verso la scelta
di dirigere un “blockbuster” di scontato successo, ma innocuo e purtroppo
poco importante (rispetto a quello che avrebbe potuto essere) dal punto
di vista cinematografico (e cinefilo, ovviamente).
Peccato davvero, perché le premesse non sfruttate per un capolavoro
c’erano tutte, a partire dalle valenze sociologiche della storia di
Boulle. Rispetto al precedente, manca soprattutto a nostro avviso l’angoscia
apocalittica che pervadeva tutta la vicenda. Burton cerca di ritrovarla
nell’ incomprensibile ed illogico finale, a nostro avviso troppo appiccicato
lì per voler significare qualcosa, e troppo ingenuo ed inefficace
per essere un vezzo autoriale. Cos’altro rimane allora da salvare di
questa pellicola? Senza dubbio la grande performance istrionica di Tim
Roth, che riesce ad ogni inquadratura, ad ogni gesto, ad ogni sguardo,
a farci capire quanto si sia divertito ad interpretare il generale Thade;
sguardo sempre torvo, completa unidimensionalità del personaggio,
cattivo a tutto tondo senza nessun bisogno di giustificazioni o spiegazioni
psicologiche, Roth si trasforma davvero in scimmia malvagia e gratuitamente
guerrafondaia, perfettamente (in)credibile nel suo essere soavemente
animalesco. Il bravo Tim o è un grande attore, oppure è
sul serio un primate dello schermo... In conclusione dunque Planet
of the Apes risulta un film che si lascia vedere con gusto ed un
certo divertimento, ma che purtroppo non lascia spazio ad altro che
alla mera superficie dell’evidenza, non avendo all’interno altro che
il magro scheletro del prodotto di cassetta. Bentornati nel Luna Park
di Tim Burton: ma stavolta i suoi mostri non commuovono né convincono
(troppo).
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