Parabola esistenziale di Luca Flores,
straordinario pianista jazz italiano, il cui talento portò a
suonare con i maggiori musicisti dellepoca (fra cui limmenso
Chet Baker), morto suicida nel 1995 poco prima di compiere 40 anni.
Linfanzia trascorsa in Africa, terra archetipica, ventre dellumanità.
Foriera di vita e al tempo stesso di morte. La morte della madre di
Luca a causa di un incidente stradale, evento che lo segnerà
indelebilmente per tutta la sua breve esistenza. Il rientro in Italia,
la dispersione della famiglia. Lirrisolta separazione traumatica
dalla madre che lo porterà a sprofondare progressivamente nei
meandri bui della malattia mentale. Passando attraverso gli amori, le
amicizie e, soprattutto, la sua grande musica. Fino al tragico evento
finale in cui Luca decide di porre fine alla propria esistenza. Tratto
dalla biografia Il disco del mondo - vita breve di Luca Flores,
musicista di Walter Veltroni, sceneggiato da Ivan Cotroneo, Claudio
Piersanti e limmancabile Sandro Petraglia, Piano, solo
è un film bello che, se soltanto avesse tenuto un maggiore rigore
formale, sarebbe potuto essere uno di quei film che rimangono attraverso
i decenni. Pur raccontando un tema difficile, e riuscendo a farlo quasi
sempre con delicatezza e pudore, il film di Milani talvolta (poco) scivola
nel didascalismo e la giusta dose di emotività in alcuni (pochissimi)
momenti sembra un po studiata a tavolino per stuzzicare nello
spettatore linevitabile lacrima. Ma questi sbandamenti sono effettivamente
minimi. Se ci permettiamo di essere pedanti è perché riteniamo
che Piano, solo meriti unattenzione particolare
per linteressante percorso autoriale di Riccardo Milani. Come
già ne il Posto dellanima,
il regista ritorna sul tema della perdita come assenza (di sé
e dellaltro da sé) e del dolore che questo venire meno
lascia inesorabilmente agli altri. Nel film del 2003 (presenti anche
allora Michele Placido e Paola Cortellesi) era, per il protagonista
Silvio Orlando, a partire dalla perdita del posto di lavoro, il disagio
sociale in quanto mancanza di senso; e la perdita della vita a causa
di un tumore, provocato proprio da quel lavoro che sembrava dare identità,
e quindi senso. Qui, in Piano, solo è, per il
sempre più sorprendente Kim Rossi Stuart, che ritorna a 13 anni
di distanza da Senza pelle di Alessandro DAlatri
a interpretare un personaggio con gravi disturbi psichici, la perdita,
la separazione dalla madre, ripetuta simbolicamente nellabbandono-
separazione dalla donna amata (Jasmine Trinca, e la memoria cinematografica
torna subito alla condizione parallela segnata da malattia e perdita
nella stessa coppia in Romanzo criminale)
e chiusa inevitabilmente, dopo il calvario della schizofrenia, dalla
separazione di Luca dagli affanni terreni. Oltre allassenza della
figura paterna che, a causa del proprio lavoro, determina la dispersione
della famiglia. Forse bisognerà aspettare ulteriori prove ma
ci sembra che ormai il percorso autoriale di Milani sia segnato da una
sorta di pessimismo esistenziale che individua nellassenza la
cifra determinante dellessere nel mondo. In questo è sicuramente,
anche se da un punto di vista intimo e personale, molto in linea con
i tempi. Non viviamo proprio in un orizzonte culturale determinato dallassenza,
dallimmaterialità delle relazioni e della comunicazione,
in cui anche il corpo stesso sembra scomparire e dileguarsi negli spazi
virtuali, salvo poi ricomparire drammaticamente soltanto attraverso
la malattia, preludio alla perdita dellessere? Bravi gli attori, tutti: da Sandra Ceccarelli nel ruolo della madre, presente soltanto nella primissima parte del film ma determinante per lo svolgimento del racconto, a Paola Cortellesi nel ruolo della sorella Barbara; da Michele Placido, il padre, a Kim Rossi Stuart, ormai votato a donare corporeità al disagio (psichico in Senza pelle e Piano, solo, sociale in Romanzo criminale, storico in I giardini dellEden, intimo in Anche libero va bene). Accarezzate da una colonna sonora impeccabile in cui regnano le magistrali esecuzioni al pianoforte di Stefano Bollani, oltre ai brani originali di Luca Flores, le immagini esemplificano a tappe il viaggio verso la follia, con discrezione, partendo da toni sommessi per arrivare a picchi di intensità drammatica, seguendo così un percorso linguistico abbastanza classico che fa da contrappunto alla libertà e alla creatività dellimprovvisazione, caratteristica fondamentale del jazz. Proprio in questo contrappunto il film trova il suo equilibrio. Se Milani avesse voluto seguire, registicamente, le acrobazie linguistiche del jazz, avrebbe forse fatto un film più audace; ma, più probabilmente, avrebbe combinato un bel pasticcio pieno di ridondanze. Del resto, afferma Milani: non ho voluto fare un film sul jazz ma un film su un ragazzo comune che allo stesso tempo fu un artista dalle doti eccezionale: in questo senso mi sembrava più corretto tenere un andamento classico e poi trasgredire la norma non vuol dire per forza usare un linguaggio trasgressivo e ultramoderno. Parole sagge. |