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Elementarteilchen,
Germania, 2006
di Oskar Roehler, con Moritz Bleibtreu, Christian Ulmen,
Franka Potente
Cè molta materia ne Le particelle elementari,
questo è fuor di dubbio. Arriva a grosse ondate, scena dopo scena,
ma, malgrado il titolo, non è distillata in quanti discreti facilmente
assimilabili dallo spettatore. Non è ridotta a particelle elementari.
Prendere le parti del fruitore medio non mi è molto difficile,
non avendo completato la lettura del romanzo originale, quel bestseller
di Michel Houellebecq che mischia, mi dicono, così sapientemente
saggio e narrazione, dissertazione filosofico-sociale e fiction letteraria.
E comunque questa genitura così ponderosa non solo non è
mimetizzata, è anzi spesso ingombrante.
Due fratellastri, venuti al mondo con un ingente carico di problematiche
affettive con cui fare i conti giorno dopo giorno, cercano in modi diametralmente
opposti di trovare il loro statuto, il loro senso nella società,
facendo del loro meglio per sopravvivere a quella che, nel loro caso,
non è una famiglia, ma un dramma distribuito - in maniera ineguale
- su due generazioni. Michael è un genio della matematica e un
brillante genetista, ma difetta completamente di quelle abilità
interrelazionali che gli permettono di aprirsi allaltro sesso.
È un potenziale premio Nobel, ma è ancora vergine. Bruno
è un cupo e rabbioso reazionario, che tenta di farsi pubblicare
saggi poco lucidi in cui illustra la sua visione dellaltro: i
negri, ad esempio, che sono primitivi, che non si lavano,
che sono incivili. Mentre Michael fa della propria autosegregazione
dalleros un tema di ricerca scientifica, esplorando le possibilità
che la tecnologia genetica può dischiudere allumanità
per separare totalmente e definitivamente latto sessuale dalla
procreazione - fino ad arrivare ad auspicare scientificamente la possibilità
di una riproduzione asessuata per sé e i propri simili- Bruno
si disperde in un caleidoscopio tendenzialmente squallido di esperienze
sessuali, è psichicamente instabile, e maneggia la propria sessualità
come un arma di cui non conosce portata né senso. Al centro della
vicenda: il sesso. E una madre, residuato vivente (e felice, almeno
lei) di una generazione e di un modo di vivere, quello del 68,
delle comuni, dei beatnik, del sesso libero, che risulta la matrice
primaria delle difficoltà di socializzazione che affliggono i
due figli. Il sesso libero, separato chirurgicamente e ideologicamente
da qualsiasi portato culturale comunemente (borghesemente?) accettato,
ha affrancato questa donna solare, splendente nei suoi occhioni da cerbiatta
e nei suoi sorrisi assenti, ma ha condannato Michael e Bruno, tralasciati,
trascurati, scaricati ai nonni come responsabilità da evitare
per poter vivere in tranquillità indolore il mondo che si è
scelta. Ormai trentenni, i due troveranno lamore, ma, con tali
premesse, e con lo sguardo caustico, impietoso e abietto
(come dice espressamente Houellebecq) che il narratore usa per dipingerci
la realtà, non saranno né rose né fiori, dato che
a quanto pare amare gli altri in maniera adulta, o semplicemente equilibrata,
non è faccenda che si possa lasciare alla semplice improvvisazione.
Questa è la storia. Che filtra qua e là, a volte più
perspicua, altre volte meno, attraverso un ordito registico fitto di
vuoti, di strani tempi morti, che lasciano intendere la fatica notevole
che il regista, Oskar Roehler, deve aver incontrato nel tentativo di
tradurre il romanzo prima in sceneggiatura, poi in immagini. Il passo
è spesso incerto, i dialoghi suonano più duna volta
come duelli in cui gli antagonisti sparano le proprie frasi, a farle
risuonare come eventi lugubri in spazi angusti. I personaggi sono continuamente
inscritti in primi piani lunghi e statici, come se ci fosse bisogno
di sottolineare anche in questa maniera laura drammatica che li
circonda, che li spinge ad agire e a soffrire; ma tutto questo comporta
alla fine una regia statica, onusta, pesante. Che il regista non voglia
bene ai propri personaggi è un malinteso in cui è troppo
naturale incappare, aiutati come si è da vicende che vediamo
sullo schermo e non possiamo non interpretare come un innaturale accanimento
del caso contro i due sfortunati. Che magari troveranno anche loro la
loro felicità, il loro posto al sole, come nella scena finale
della gita al lago. Ma basta staccarsi per un attimo dalla superficiale
semantica di luci e colori (solo nella scena finale pare che ci sia
per i protagonisti la possibilità di stare a testa alta en
plein air) per concludere, in tempo con una didascalia di chiusura
che è un cinico e terribile epitaffio, quanto possa far male
ad una storia dichiaratamente depressiva un costume cinematografico
così poco illuminato dal nitore dello humour e così poco
ritmato dal beat dellironia. Ma la Germania, a quanto pare, non
è la Francia. Roehler non è Arcand.
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