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Parlami d’amore
Italia, 2008
di Silvio Muccino, con Silvio Muccino, Aitana Sánchez-Giójn, Carolina Crescentini, Andrea Renzi, Max Mazzotta, Giorgio Colangeli, Geraldine Chaplin

I dolori del giovane Silvio Muccino (e quelli di tutti noi…)
recensione di Marco Giallonardi



Il primo cartello che compare su fondo nero, ad aprire il film, scatena fischi e mugugni (cito a memoria): “realizzato con il contributo dello Stato e riconosciuto come opera d’interesse culturale”. Senza aprire parentesi sulla situazione drammatica del finanziamento pubblico al cinema in Italia, è utile soffermarsi su questo dettaglio per capire quanto il critico e il pubblico, quello non di teen ager, tenda ad affrontare l’esordio dietro la macchina da presa di Silvio Muccino con una certa ritrosia, per non dire con preconcetti inossidabili. Ma come dargli torto?
Ci si può sforzare di essere imparziali, attendere che il film decolli e inizi a dire qualcosa per poi sbilanciarsi in giudizi o stroncature, ma alla fin fine perché? Ci si può sforzare di comprendere quanto i limiti di un esordio a 25 anni (beato Moretti e gli anni settanta: Io sono un autarchico, e dico Io sono un autarchico, lo diresse a soli 23 anni…) comprimano la materia, in ansia straripante da ogni poro del racconto e dell’immagine, riconoscendo al film il merito di essersi avvalso di straordinari capireparto capaci di impreziosire il tutto (lo scenografo Zeri e il direttore della fotografia Catinari su tutti), ma tanto si sa da subito, è chiaro dopo pochi minuti, quanto sarà acuto il fastidio e il tormento della visione. Ci si può intenerire di fronte all’ingenuità stucchevole del giovane Muccino, che sforna un melodramma a tinte fosche (più dramma che melò), che lo fa precipitare spesso e volentieri in baratri di ridicolo da cui non può risollevarsi, nonostante il candore con cui professi le sue buone intenzioni, ma comunque allo sbandierato e fasullo talento familiare non ci crede proprio nessuno, neanche per un minuto, un misero e breve, schifoso, minuto di film.
A guardare bene infatti (e senza fare troppa attenzione) il film non c’è, non esiste, non racconta nulla. Attaccato ad una concezione tardo adolescenziale e manichea che vede il mondo diviso tra buoni e cattivi, “fattoni” e coscienziosi, ricchi e poveri, sfigati e di successo, Parlami d’amore non si sforza di sviluppare un racconto credibile, si perde in meandri bui e scontati, lascia che il senso fluttui e che lo spettatori scivoli nell’inevitabile divertimento denigratorio. Il passato dei personaggi, tenuto nascosto per creare suspense ed interesse, non è anch’esso elemento motivante: arriva sempre il momento, ed è sempre quello sbagliato, per rendere noto il passato di ognuno, per spiattellare in faccia allo spettatore una storia che non interessa e soprattutto non serve a nessuno, che motiva il dramma e cerca di chiudere i conti chirurgicamente, come tanto ama fare il cinema italiano di oggi, attento al linguaggio della tv (cioè tutto quanto).
Giocare con il citazionismo poi, a Silvietto, non giova per nulla. Ci butta in mezzo Godard, Bertolucci, Vigo, con l’innocenza del male di chi non ha capito che a giocare con il fuoco ci si brucia. Allora anche la misura personale del film, quell’essere opera prima/opera vera di un cognome noto che vuole dimostrare di essere qualcosa, indipendentemente dal fratellone esportato negli States, che può incastrare il pubblico più giovane e ingenuo, non può passare se ci si vuole dotare di un pizzico di cinismo. Nel clima di cinismo imposto, di conseguenza, nulla passa: l’immagine all’americana non passa, la musica pompata e onnipresente non passa, l’afflato con cui il giovane e disagiato Sasha cerca l’amore vero, libero dalla corruzione dell’animo e dalla malvagità del mondo adulto, non passa. Muccinetto ha avuto un’infanzia serena, coccolata e beata, prima del cinema, lo ammette lui stesso: peccato che di conseguenza non sappia raccontare in alcun modo il mondo che tanto lo appassiona, i tormenti dell’animo e la ricerca della felicità.
Forse che ci stiamo sbagliando, non riconoscendo l’onestà intrinseca, sotterranea, di Parlami d’amore? Da qui, da una domanda più che da una risposta, conviene partire, per riflettere e capire cosa vuole davvero Silvio Muccino. Di certo la popolarità, viene scontato pensare. Ma per far cosa? Per i soldi? No, non ci credo. Piuttosto perché la popolarità, nel cinema italiano, il favore e l’amore del pubblico, qualsiasi pubblico, sono diventate la meta agognata da chi scende in campo, l’obiettivo di chi, al di là della necessità di riuscire nel mercato, crede di vedere così riconosciuta la propria qualità. Peccato che nel Paese Italia di oggi, affannato alla ricerca del prodotto felicità e non del suo contenuto, di parole d’amore vuote che allevino il cuore pur senza dire nulla, assolutamente nulla (come fanno la maggior parte dei dialoghi significativi del film), ci sia bisogno solo di teledipendenza e linguaggio omologato, oltre la barriera di un target adolescenziale tanto caro ai produttori italici negli ultimi anni. Cosa che punta a fare, purtroppo riuscendoci alla perfezione, Parlami d’amore.
Scambiare qualità con quantità fa comodo, troppo comodo. E 500 copie abbondanti (il lancio previsto da 01 per il film) raccontano meglio di questo piccolo Parlami d’amore il disastro culturale del cinema italiano…