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Il primo cartello che compare su
fondo nero, ad aprire il film, scatena fischi e mugugni (cito a memoria):
realizzato con il contributo dello Stato e riconosciuto come opera
dinteresse culturale. Senza aprire parentesi sulla situazione
drammatica del finanziamento pubblico al cinema in Italia, è
utile soffermarsi su questo dettaglio per capire quanto il critico e
il pubblico, quello non di teen ager, tenda ad affrontare lesordio
dietro la macchina da presa di Silvio Muccino con una certa ritrosia,
per non dire con preconcetti inossidabili. Ma come dargli torto?
Ci si può sforzare di essere imparziali, attendere che il film
decolli e inizi a dire qualcosa per poi sbilanciarsi in giudizi o stroncature,
ma alla fin fine perché? Ci si può sforzare di comprendere
quanto i limiti di un esordio a 25 anni (beato Moretti e gli anni settanta:
Io sono un autarchico, e dico Io sono un autarchico,
lo diresse a soli 23 anni
) comprimano la materia, in ansia straripante
da ogni poro del racconto e dellimmagine, riconoscendo al film
il merito di essersi avvalso di straordinari capireparto capaci di impreziosire
il tutto (lo scenografo Zeri e il direttore della fotografia Catinari
su tutti), ma tanto si sa da subito, è chiaro dopo pochi minuti,
quanto sarà acuto il fastidio e il tormento della visione. Ci
si può intenerire di fronte allingenuità stucchevole
del giovane Muccino, che sforna un melodramma a tinte fosche (più
dramma che melò), che lo fa precipitare spesso e volentieri in
baratri di ridicolo da cui non può risollevarsi, nonostante il
candore con cui professi le sue buone intenzioni, ma comunque allo sbandierato
e fasullo talento familiare non ci crede proprio nessuno, neanche per
un minuto, un misero e breve, schifoso, minuto di film.
A guardare bene infatti (e senza fare troppa attenzione) il film non
cè, non esiste, non racconta nulla. Attaccato ad una concezione
tardo adolescenziale e manichea che vede il mondo diviso tra buoni e
cattivi, fattoni e coscienziosi, ricchi e poveri, sfigati
e di successo, Parlami damore non si sforza di
sviluppare un racconto credibile, si perde in meandri bui e scontati,
lascia che il senso fluttui e che lo spettatori scivoli nellinevitabile
divertimento denigratorio. Il passato dei personaggi, tenuto nascosto
per creare suspense ed interesse, non è anchesso elemento
motivante: arriva sempre il momento, ed è sempre quello sbagliato,
per rendere noto il passato di ognuno, per spiattellare in faccia allo
spettatore una storia che non interessa e soprattutto non serve a nessuno,
che motiva il dramma e cerca di chiudere i conti chirurgicamente, come
tanto ama fare il cinema italiano di oggi, attento al linguaggio della
tv (cioè tutto quanto).
Giocare con il citazionismo poi, a Silvietto, non giova per nulla. Ci
butta in mezzo Godard, Bertolucci, Vigo, con linnocenza del male
di chi non ha capito che a giocare con il fuoco ci si brucia. Allora
anche la misura personale del film, quellessere opera prima/opera
vera di un cognome noto che vuole dimostrare di essere qualcosa, indipendentemente
dal fratellone esportato negli States, che può incastrare il
pubblico più giovane e ingenuo, non può passare se ci
si vuole dotare di un pizzico di cinismo. Nel clima di cinismo imposto,
di conseguenza, nulla passa: limmagine allamericana non
passa, la musica pompata e onnipresente non passa, lafflato con
cui il giovane e disagiato Sasha cerca lamore vero, libero dalla
corruzione dellanimo e dalla malvagità del mondo adulto,
non passa. Muccinetto ha avuto uninfanzia serena, coccolata e
beata, prima del cinema, lo ammette lui stesso: peccato che di conseguenza
non sappia raccontare in alcun modo il mondo che tanto lo appassiona,
i tormenti dellanimo e la ricerca della felicità.
Forse che ci stiamo sbagliando, non riconoscendo lonestà
intrinseca, sotterranea, di Parlami damore? Da
qui, da una domanda più che da una risposta, conviene partire,
per riflettere e capire cosa vuole davvero Silvio Muccino. Di certo
la popolarità, viene scontato pensare. Ma per far cosa? Per i
soldi? No, non ci credo. Piuttosto perché la popolarità,
nel cinema italiano, il favore e lamore del pubblico, qualsiasi
pubblico, sono diventate la meta agognata da chi scende in campo, lobiettivo
di chi, al di là della necessità di riuscire nel mercato,
crede di vedere così riconosciuta la propria qualità.
Peccato che nel Paese Italia di oggi, affannato alla ricerca del prodotto
felicità e non del suo contenuto, di parole damore vuote
che allevino il cuore pur senza dire nulla, assolutamente nulla (come
fanno la maggior parte dei dialoghi significativi del film), ci sia
bisogno solo di teledipendenza e linguaggio omologato, oltre la barriera
di un target adolescenziale tanto caro ai produttori italici negli ultimi
anni. Cosa che punta a fare, purtroppo riuscendoci alla perfezione,
Parlami damore.
Scambiare qualità con quantità fa comodo, troppo comodo.
E 500 copie abbondanti (il lancio previsto da 01 per il film) raccontano
meglio di questo piccolo Parlami damore il disastro
culturale del cinema italiano
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