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Qualè la chiave del
successo di una franchise come Oceans thirteen?
In teoria la risposta principale è lattrattiva evidente
che gli attori divi sanno catalizzare su sé stessi, soprattutto
quando si tratta di Brad Pitt o George Clooney. Le due icone divistiche
funzionano benissimo in un contesto che ne esalta non solo il fascino
ma anche lelemento, per così dire, avventuroso, che li
porta oltre la legalità e i codici. In un certo senso il divismo
ostentato delle tre pellicole di Soderbergh rimanda ad esempi che stanno
a cavallo tra alcuni eroi ambigui degli anni cinquanta (il parallelo
solito Clooney-Cary Grant, soprattutto nellutilizzo che ne faceva
Hitchcock), alcuni eroi francamente inquietanti degli anni sessanta
(Bond-Connery), e alcuni antieroi disperatamente fascinosi dei sessanta
(Paul Newman, Robert Redford e la Stangata per tutti).
La strizzata docchio di Soderbergh a tutta questa tradizione divistica
serve in maniera perfetta un progetto in cui il divo è tale perché
al di la dei codici, pienamente padrone non solo delle azioni che progetta,
ma anche del proprio corpo e del fascino, della sensualità che
dalle sue azioni promana. Unidentificazione in un certo modo ambigua
(eroe=amorale per quanto questa verità sia abilmente e amabilmente
celata), ma che consente allo spettatore di immedesimarsi nelle variazioni
sul tema di Arsenio Lupin senza il minimo senso di colpa. A confermare
questa piena esplicazione del potere divistico sulla pellicola stessa
cè da dire che i tre Ocean sono tra i rari congegni tecnologico-spettacolari
hollywoodiani in cui gli attori si riservano una licenza di improvvisare
con una continuità quasi da jam session e il loro divertimento
dalla pellicola traspare eccome. Dunque il divo, colui che non è
nemmeno più prigioniero della sua icona, come da luogo comune
pericoloso sulle star della Hollywood classica, ma la gioca in assoluta
souplesse. Che questo gioco sia vero o esibito con una punta di cinismo,
di fatto funziona e questo conta. Ulteriore aggiunta al divertimento
puro, in questo caso il gioco non contempla la presenza di nessuna star
femminile, una sorta di contrappunto che limita da un lato la possibilità
dei protagonisti e dallaltro ne indirizza i desideri, sfrondando
la trama verso quello che poi è il suo centro spettacolare: il
colpo grosso. Se nei primi due Ocean vi era unequazione, avere
i soldi quindi avere una donna, ma la donna diva aveva la possibilità
di sfuggire ai perfetti progetti maschili di Brad Pitt e George Clooney,
come dellantagonista dei due attori, Andy Garcia, qui tutto il
gioco si centra sul progetto di rapina, lantagonista diventa consapevole
alleato (rovesciamento dei ruoli) contro una seconda e più pericolosa
nemesi, Al Pacino. E qui si torna al punto di partenza. Il successo
di Oceans thirteen come degli altri due film
che lo hanno preceduto, non sta solo nella libera possibilità
degli attori divi di sfoderare fascino e charme, quasi che il film diventasse
un appendice di un servizio fotografico, quanto sulla capacità
dei divi stessi e dei loro personaggi di esercitare una messa in scena,
di progettare, insomma di diventare registi. Se si volesse impostare
una breve analisi del modo di strutturarsi dei tre film di Soderbergh,
la struttura delle pellicole risulterebbe oltremodo semplice e lineare:
presentazione non dei protagonisti, ma di ciò che essi emanano,
vale a dire un mondo già descritto come falso e mitografico,
se uno volesse dare uninterpretazione facile, Hollywood e i suoi
miti vacui e pericolosi, ma immancabilmente affascinanti nonostante
tutte le controindicazioni. Quindi, in secondo luogo, ricerca dellobiettivo
da colpire e descrizione di un sistema di sicurezza perfetto e impossibile
da scardinare. Infine, descrizione del modo in cui gli autori del furto
scardinano il sistema infallibile e riescono nel colpo. Detto in termini
metacinematografici, abbiamo una cornice, la costruzione di uno spazio
dellazione, il modo in cui regia e attori scardinano questo spazio
perfetto, vi penetrano e lo giocano. Ed ecco che il film che sembra
funzionare solo per gli attori diventa invece un sottile gioco sulla
messa in scena e sul modo di giocare con le regole di un genere scardinandolo
e giocandolo al tempo stesso. Il ludus di Soderbergh diventa
più chiaro quando si mettono in parallelo le ipotesi film
dattore (o della star) e film di regia (dautore).
Sembrerebbero due opzioni che, in un caso come questo, si escluderebbero
a vicenda, oppure si annullerebbero nel bailamme spettacolare Hi tech.
Invece possono tranquillamente convivere proprio perché la messa
in atto di una rapina, corrisponde, nel gioco di Soderbergh, alla costruzione
di una messa in scena perfetta, cioè ad una regia. I divi sono
niente altro che gli attori i quali, messi di fronte al proprio stereotipo
preferito, devono giocarlo con molta ironia, per cavarne qualche nota
nuova e quindi sottrarsi alle logiche molto definite di un genere, di
uno standard. Questa chiave di lettura si abbina a quella di Soderbergh
regista che, confrontandosi con i macchinari della perfetta grana dimmagine
hollywoodiana, prima costruisce un meccanismo perfetto, poi lo scardina,
giocando con la moltiplicazione delle immagini (telecamere digitali,
trompe loeil, etc). Insomma il bello di Oceans thirteen,
è quello di ricostruire le regole di un gioco, il genere, che
coinvolge regista, attori e spettatori e, attraverso il divertimento
del gioco puro, trovare degli elementi di novità, la rottura
del meccanismo perfetto e la rivivificazione delle immagini. E questo
divertimento è il filo sottile di un progetto teorico.
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