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'R Xmas,
Usa, 2001
di Abel Ferrara, con Drea de Matteo, Lillo Brancato, Lisa Valens, Ice-T
Innanzitutto, una nota di colore: Il nostro Natale è stato
distribuito a Roma in una sola sala, a fronte di oltre 200 schermi.
Che gli esercenti approfittino delle feste per incassare con prodotti
a colpo sicuro è più che legittimo, ma resta un mistero
la scelta della distribuzione di lanciare il film proprio ora, a meno
che il titolo stesso sia stato ritenuto a tal punto vincolante da obbligarne
lo sbaraglio nell’arena natalizia. Ed è un peccato, perché
Ferrara, autore difficile e comunque dagli esiti discontinui, appare
veramente in stato di grazia: dolente e ironico al tempo stesso, lucido
e controllato come poche altre volte, anche nella consapevolezza di
girare un film “piccolo”, senza le ambizioni narrative di Fratelli,
né quelle estetiche di New Rose Hotel, ma capace tuttavia
di contenere le suggestioni di entrambi.
Il Natale del titolo appartiene a una famiglia apparentemente tranquilla
della New York dei primi anni novanta, ancora non addomesticata da Giuliani:
lui e lei con la bambina da andare a vedere alla recita scolastica,
la bella casa a Manhattan, l’intesa sentimentale perfetta. L’origine
sudamericana di entrambi però tradisce qualcosa in più,
visto che scopriamo presto che per campare i due gestiscono un grosso
giro di droga, tagliata e imbustata personalmente in un appartamento
in periferia e rifilata per la vendita al dettaglio a un manipolo di
pusher neri. Qui Ferrara assesta il primo colpo: la famigliola borghese
è in realtà un’organizzazione criminale. Ma è un
colpo morbido, perché questa seconda vita è illustrata
pacatamente nella sua pratica quotidiana (il lungo viaggio in macchina
verso la casa in periferia, la meticolosa preparazione delle bustine),
come se il commercio non avesse nessun risvolto violento-adrenalinico,
ma solo la routine di una rispettabile occupazione.
Poi il protagonista viene rapito da un gruppo di poliziotti corrotti,
che chiedono un riscatto alla moglie: lei si ingegna per trovare i soldi,
è disperata, ma alla fine la spunta e lui può tornare
tranquillamente a casa. Anche qui Ferrara sceglie di gestire l’episodio
sottotono, senza mai far percepire allo spettatore una sensazione di
reale pericolo o una vera accelerazione drammatica. Riunita la famiglia,
lei chiede a lui di rinunciare alla vita che hanno fatto finora: è
redenzione? Sembrerebbe di sì, ma c’è troppo poco tormento,
conoscendo Ferrara.
Durante una mondana festa di Natale, il protagonista viene chiamato
fuori da due sgherri apparentemente innocui: hanno tagliato la testa
di uno dei rapitori. Gli altri, come informa il telegiornale, sono stati
arrestati in quanto scoperti come poliziotti corrotti. Il capofamiglia,
insomma, è un vero boss, spietato, sanguinario e con buoni agganci
politici, che non ha fatto che ristabilire l’ordine delle cose. Il ribaltamento
stavolta è forte, tanto più che lo spettatore ha assunto
nella parte centrale del film il punto di vista della moglie, che conosce
solo una parte della verità e rimane con l’illusione che si possa
cambiare vita, lasciandosi alle spalle l’avventura della droga come
un gioco redditizio e temporaneo. La famiglia vive quindi a tre livelli
percettivi: la figlia incosciente, di cui viene accuratamente preservata
l’innocenza; la moglie a conoscenza solo di una parte della verità
e pronta a ritirarsi alla prima esperienza traumatica; il marito unico
vero conoscitore e conduttore del gioco, capace di una dissimulata ferocia.
L’intreccio dei tre livelli coinvolge a turno lo spettatore (non è
un caso che l’inizio ruoti tutto intorno alla recita della bambina e
alla ripresa che le viene fatta), e quello del padre è il più
sfuggente e difficile da penetrare, come indica il fatto che il suo
punto di vista sull’episodio del rapimento giunge solo nei frammenti
sparsi di un flashback. Come già in Blackout e New
Rose Hotel (vedi anche l’uso costante del video come ulteriore porzione
di verità-menzogna), Ferrara inscena il dramma progressivo della
conoscenza, anche se stavolta con toni meno marcati: Matthew Modine
ritrovava in un filmato la responsabilità rimossa in un omicidio,
Willem Defoe poteva solo tentare di ricostruire la memoria lacunosa
della sua storia con Sandii, costringendo paradossalmente lo spettatore
ad assistere due volte allo stesso (?) film. Ne Il nostro natale il
gioco si ripete, meno complesso e drammatico, ma ugualmente condotto
sul filo di un continuo spiazzamento, su una filosofia della visione
consapevolmente frammentaria e sfuggente, in cui personaggi e spettatori
fanno i conti con strati sempre diversi di realtà, mai veramente
esplorabili fino in fondo e sempre, necessariamente, legati a una trauma
impossibile da assimilare. È ancora qui, al di là di uno
strombazzato maledettismo, che preferiamo misurare la portata destabilizzante
del cinema di Ferrara.
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