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il Nascondiglio
the Hideout, Italia / Usa, 2007
di Pupi Avati, con Laura Morante, Rita Tushingham, Treat
Williams, Burt Young, Yvonne Sciò
Pseudoarcheologia del brivido
recensione di Emanuele Boccianti
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Sono andato a vedere il
Nascondiglio di Avati non senza una certa commozione. Non capita
tutti i giorni di poter vedere in pellicola il lavoro di gioventù
di un grande maestro del cinema italiano; perdipiù un film sconosciuto,
ripescato dalle sabbie del passato in chissà quale rocambolesco
modo e circostanza. Un film di cui nessuno sospettava l'esistenza, e
forse nemmeno lo stesso Pupi ne aveva ancora memoria. Io sono cresciuto
a pane e Zeder: potete immaginarvi dunque l'emozione,
un moto dell'anima che, sotto una pellicola di brivido ed euforia, conteneva
- ebbene sì - un germe di genuino affetto e tenerezza, che mi
si palesava mentre vedevo quelle immagini vecchie di decenni illuminarsi
sul telo.
Guardavo il film e mi rendevo conto che sì, in quell'opera ovviamente
ancora acerba - per non dire acre - chi aveva la giusta sensibilità
poteva senz'altro intuire temi e stili che poi il grande Pupi avrebbe
saputo far decantare e distillare. Sono già in costruzione nel
poderoso cantiere filmico che è la mente del nostro, le idee
alla base del cosiddetto "gotico padano" che prenderà
vera vita con la Casa dalle finestre che ridono: ne
il Nascondiglio siamo ancora ad una fase immatura,
sperimentale. Avati sente di stare cercando qualcosa di nuovo, sente
questi nuovi colori che vogliono uscirgli dalle vene, ma non ha ancora
lucidità e coraggio per l'intuizione che verrà, e cioè
ambientare l'orrore in un contesto precipuamente italiano, anzi, regionale.
Così ricalca mode e tendenze più timidamente mainstream
e colloca il tutto nell'Iowa, USA, forse sperando nella benevolenza
di numi tutelari di quelle latitudini.
Il soggetto stesso, inoltre, è una stilla di inquietudine, più
che di paura vera e propria, niente più. Quella stilla, solitaria
e senza alcuna strutturazione, diventa il cuore pulsante della vicenda,
e tutto il resto dell'apparato narrativo è solo un morbido bozzolo
di bambagia per incubare e coccolare quell'unica idea, quell'unico,
timido brivido. Ma chi sa, chi conosce, e chi ha il senso del cinema
di Avati, vede quel brivido implume e in qualche modo sente che germoglierà,
che saprà prendere coraggio e vigore e, insediatosi in Emilia,
trasformarsi in una vera progenie di incubi. Allora gli si perdona qualunque
ingenuità, come la noncuranza per la gestione dei personaggi,
due dei quali, una volta compiuto il loro dovere di "incubare"
la protagonista - che, allora sconosciuta, diventerà un volto
via via sempre più noto del cinema italiano - vengono letteralmente
tagliati via dal montaggio (o dalla sceneggiatura? chissà se
esiste ancora o se è andata persa, pergamena marcita in qualche
scaffale in qualche villa antica...), senza un saluto, senza una nota.
Nemmeno in quella didasacalia finale, appena prima dei titoli, che è
un ennesimo segno dei tempi giovani e immaturi di un cineasta che sta
crescendo: e che di lì a poco se ne fregherà di cercare
di convincere il suo pubblico che quello che sta vedendo sullo schermo
"potrebbe anche essere stato vero".
Andate a vedere il Nascondiglio: andate a vedere coi
vostri occhi come un autore si evolve da un passato in cui non gli avreste
dato due lire, e finisce col diventare il regista di uno dei migliori
film horror italiani.
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