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Monsters, Inc.,
Usa, 2001
di Pete Docter, David Silverman, Lee Unkrich, animazione
Hollywood sta rapidamente trasferendo "altrove" le sue produzioni:
i film, per motivi economici si progettano a Los Angeles ma si girano
a San Francisco, in Canada, in Europa dell'est e in Nuova Zelanda. O
nella Sylicon Valley. Set "virtuale" che ospita una delle
case di produzioni più importanti del momento: la Pixar. Da Toy
Story a A Bug's Life, il gruppo ha dimostrato che ogni manfrina
passatista e pseudoromantica sulla fredezza del computer non è
che un alibi per furbi o disinformati. Il perno su cui fa leva il cinema
d'animazione digitale della Pixar infatti è l'attenzione ai caratteri
dei personaggi, allo sviluppo delle storie e la cura estrema per il
character design e l'originalità del tratto. Ma in Monsters
& Co. il "metodo Pixar" sembra scuotersi sotto il
peso di una nuova spinta evolutiva. L'abituale raffinatezza e completezza
di scrittura cede il passo ad una meno ferrea costruzione di storia
e personaggi per esplodere in barocchismi fatti di gag visive a cascata.
Tutta l'attenzione è focalizzata sulla tridimensionalizazione
di due personaggi, lo "spaventatore" James P. "Sully"
Sullivan e la piccola umana Boo, mentre quasi tutti gli altri sono poco
più che schizzi di mostri, compreso la verde spalla "monocola"
di Sully, Mike Wazowski. Si viene a costruire così un ferreo
asse Sully-Boo che si basa sull'evoluzione del rapporto umano-mostro
dal terrore all'affetto, un rapporto così intenso che riesce
a commuovere e permette contemporaneamente al film di sbandare dove
vuole, pasticciando nell'immaginario con la libertà di un bambino
curioso. Questo è evidentemente frutto dell'affiatamento della
squadra realizzativa Pixar che si è permessa di ritoccare significativamente
la sceneggiatura in corsa, durante cioè la fase realizzativa
nella quale - come buona regola dell'industria vuole - sarebbe opportuno
invece avere ben delineate strade, svolte e imprevisti. Il cinema digitale
diventa l'incarnazione della versatilità creativa, e si scopre
furbo e veloce, nel cambiare percorsi e nel perseguire equilibri impossibil,
come un gatto. Che poi è proprio quello che si accorge di essere
Sully, il cui cuore peloso di mostro spaventatore fa una scoperta che,
invece di togliergli l'identità e gettarlo nello sconforto, porta
ad una rivoluzione e ad una ricollocazione nel suo mondo. L'essenza
di Sully è proprio quella che gli attribuisce il soprannome con
cui il mostro è apostrofato da Boo: è un "gatto"
enorme e dolce, e non un evocatore di incubi. E questa nuova consapevolezza
si affaccia contemporaneamente alla scoperta che i bambini sono molto
più utili ai mostri quando ridono che quando gridano di spavento.
Boo contamina il mondo dei mostri, ne altera gli equilibri con le sue
improvvise decisioni di bambina proprio come, in parte, gli esseri umani
coi giocattoli di Toy Story. Lo contamina sia ad un livello diegetico,
spargendo sgomento fra i personaggi del mondo in cui si ritrova, che
al livello strutturale "reale" dei creatori di quel mondo,
spargendo svolazzi e microesplosioni in una sceneggiatura che è
apparentemente più pasticciata del solito. In realtà è
solo passata lei stessa moltissime volte, come Sully, Boo e Mike, attraverso
molte porte che si aprono su milioni di camerette sparse ovunque, milioni
di "altrove", porte archiviate in un enorme magazzino dell'immaginario
una accanto all'altra. Un magazzino dove convivono in modo proficuo
mille mondi e modi diversi, meravigliosamente moltiplicati e ridondanti,
più interessati alle possibilità di sbirciare l'uno nell'altro
che alla ricerca di un dosato equilibrio narrativo, ma mai dimentichi
delle esigenze di ritmo che questa scelta comporta.
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