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Usa, 2001 di Brian De Palma, con Tim Robbins, Gary Sinise, Don Cheadle, Connie Nielsen Svelare ed evocare "A dotto', er cosmo è pronto!". Le parole di un elettricista, "raccolte" sul set di 002 operazione Luna e indirizzate al regista Lucio Fulci, uno dei pił geniali artigiani del cinema italiano di genere, sintetizzano precisamente gran parte della magia del cinema: illudere con la finzione quel tanto che basta per creare sullo schermo un mondo diverso e avvincente. "Quel tanto" può essere molto, e quindi creare l'illusione totale e coerente, oppure essere estremamente ridotto, a volte addirittura insufficiente, ma, proprio per questa sua limitatezza, affascinare e diventare punto importante di una poetica espressiva. Nel film di Brian De Palma, "er cosmo", e, naturalmente, Marte, racchiudono miracolosamente entrambe queste scelte di campo. A partire dalla prima inquadratura, De Palma chiarifica questa doppio approccio al cinema: vediamo un razzo partire nel cielo azzurro della Terra, ma quel razzo non è che un modello lanciato durante la festa di addio alla terra degli astronauti della prima missione su Marte. Similmente e in senso inverso vedremo in seguito un modulo esplorativo sul suolo di Marte, modulo che sembra un ingenuo modellino, scelta improbabile all'interno di un film costato 90 milioni di dollari. Ma quel veicolo ha, nella finzione, realmente le dimensioni di un modellino. In entrambi i casi, l'illusione che si tratti di una vera navetta spaziale o di un veicolo di esplorazione delle dimensioni adatte a contenere esseri umani dura un attimo, e sembra essere un'aperta dichiarazione d'intenti: il film non vuole svelare nulla. Punta piuttosto ad evocare. L'ecumenismo per lo stupore Al contrario della tendenza di molto cinema contemporaneo fantastico che basa il suo fascino sulla rivelazione di infiniti mondi alternativi, reali o immaginari (da Fight Club, a Matrix, ad eXistenZ), e che si ispira fondamentalmente a poetiche esplorate dalla letteratura dello scrittore americano Philip K. Dick, Mission to Mars è un film ecumenico, piano, lineare, dove non ci sono colpi di scena eclatanti o invenzioni narrative originali, un film legato, per stessa ammissione del regista, all'atmosfera ingenua della fantascienza degli anni '50. Lo stesso racconto finale del marziano che svela le origini aliene della razza umana è la messa in scena di una teoria ormai diffusissima, e De Palma sottolinea questo punto attraverso un momento di animazione digitale che appare fin troppo semplice nella realizzazione (considerati i livelli di simulazione raggiunti dalla computer grafica) e fa cadere tutte le pretese di iperrealismo fino a quel momento orchestrate nella ricostruzione di Marte. Una specie di cortometraggio esplicativo dal sapore di "educational" scolastico, tanto infantile e semplice da diventare un momento quasi astratto. D'altra parte la doppia anima delle scelte depalmiane si fa sentire costantemente in tutto il film. Quando si tratta di mostrare la tecnologia spaziale e l'ambiente marziano, le capacità spettacolari e la potenza illusoria dell'industria hollywoodiana vengono spiegate all'ennesima potenza. I particolari delle astronavi usate, lo studio dei movimenti di cose, persone e macchina da presa a gravità zero, il paesaggio rosso e desertico di Marte, la gigantesca tempesta di sabbia che travolge la prima spedizione: la volontà e l'effetto della messa in scena sono univocamente diretti a trasportarci di peso in realtà fantastiche in cui è necessario credere a pieno. Poi, a volte improvvisamente, siamo rigettati senza soluzione di continuità in scelte visive antirealistiche che spostano il piano del film in una zona astratta. A questo proposito è illuminante la splendida scena che vede gli astronauti della seconda missione abbandonare l'astronave inutilizzabile e lanciarsi nello spazio per tentare di recuperare il modulo di salvataggio lasciato in orbita dalla prima, dispersa spedizione. Fuori dell'astronave ci viene mostrato un "cosmo" che sembra fatto delle lampadine di fulciana memoria, dove le figure lente e goffe degli astronauti si muovono disperate in un crescendo di tensione agorafobico fatto quasi solo di intensi primi piani. E quando il personaggio di Tim Robbins si sacrifica per salvare la vita della moglie e degli altri due compagni di missione togliendosi il casco e abbandonandosi all'asfissia e al congelamento istantaneo provocato dall'assenza di atmosfera dello spazio aperto, De Palma ci regala un'inquadratura di rara evidente "essenza posticcia" e di altrettanta rara intensità: il corpo ghiacciato di Tim Robbins fluttua verso l'atmosfera di Marte mentre la moglie gli volge le spalle per tornare dai compagni superstiti, distrutta dal dolore ma ormai impossibilitata a qualsiasi gesto di aiuto. D'altra parte l'approccio lineare che abbiamo descritto consente a De Palma di regalarci altre immagini di rara chiarezza e potenza, come il transito dei protagonisti all'interno dell'astronave aliena, priva di punti di riferimento e immersa in una luce completamente bianca, o l'inquadratura che sorprende gli umani attoniti nell'osservare, nella stessa astronave, la partenza di tanti piccoli veicoli spaziali dalla superficie ormai inabitabile di un Marte simulato in tre dimensioni davanti ai loro occhi. Visioni di sintesi In questa cornice dalla doppia valenza iperrealismo/esplicita finzione, De Palma gioca con ritmi e tempi grazie ad una poetica e un'abilità stilistica precise e lucidissime. Questi sono gli approcci alla visione che, più che l'esplicito richiamo-omaggio a certe invenzioni iconografiche, lo avvicinano alle scelte kubrickiane. Molto dilatato sia temporalmente che spazialmente, il percorso degli astronauti è raccontato sempre dal punto di vista del tempo: le comunicazioni sono lente e imprecise, le vite marziane sono ricevute in differita dai terrestri, le azioni stesse dei protagonisti sembrano rallentate e adeguate alle proporzioni di un'impresa mastodontica. Difficile e lento è muoversi nello spazio, ma lo è anche su Marte, dove di fronte alla maestosità di una violentissima e incredibile tempesta gli astronauti rimangono paralizzati e sembrano lasciarsi sacrificare. Ed è nel ritmo narrativo degli eventi specifici, e non nella narrazione esplicita del passare dei due anni che intercorrono dall'inizio alla fine dell'avventura, che si palesa il tempo lungo della missione In opposizione al "modello produttivo Bruckheimer" (che trova il suo campione nel pur notevolissimo Armageddon di Michael Bay) adottato dalla maggior parte del cinema avventuroso-fantastico americano mainstream, fatto di una molteplicità di inquadrature, di ritmi sincopati e velocissimi, di violente e continue esplosioni ed eclatanti iperboli visive, Mission to Mars ha uno sviluppo segnato da una progressione precisa e a tratti ieratica delle inquadrature e un senso del ritmo quasi riflessivo. Con un'abilità riassuntiva non comune, in un colpo solo il film recupera l'ingenua innocenza del primo cinema di fantascienza e la attualizza popolarizzando le scelte ritmiche del fantastico più autoriale (come quello kubrickiano), creando un prodotto fuori dal tempo, un ibrido che fluttua in assenza di gravità, aspettando che il cinema del presente ne assimili la portata innovativa. |