Mi chiamo Sam

Umiltà melodica
di Giuliano Tomassacci

 
  I Am Sam, Usa, 2001
di Jessie Nelson, con Sean Penn, Michelle Pfeiffer, Dakota Fanning, Dianne Wiest


Le frequenti e insistite voci che hanno anticipato l'uscita di Mi chiamo Sam, riguardanti l'ottima performance di Sean Penn e la presenza di materiali cover dei Beatles nella colonna sonora, rischiano di adombrare e svalutare le altre, apprezzabilissime, caratteristiche e la valenza generale dell'opera di Jessie Nelson.
La vicenda di un padre portatore di handicap, il Sam del titolo (Penn), che vede togliersi ingiustamente la custodia della piccola figlia Lucy (la brava Dakota Fanning) - poiché giudicato inadatto alla sua educazione - ingaggiando così una battaglia legale e morale per il riaffidamento, ha trovato infatti una felice e appropriata narrazione in un film ben calibrato, sincero ed emozionante, che adempie dignitosamente alle sue ambizioni e rispetta le promesse.
Autrice anche della sceneggiatura (a quattro mani con Kristine Johnson) la Nelson, per la sua seconda regia (la prima è del 1994 : Corinna, Corinna) ha adottato un registro docu-drammatico che, differendo da alcuni collaudati dettami, non si circoscrive ai momenti tipicamente cronachistici (come le fasi del processo in aula) ma invade l'intero materiale diegetico. Ecco allora il fortissimo, imperante impiego della macchina a mano, virato, per l'appunto, ad un preciso modulo di inchiesta giornalistica: frequenti zoom, movimenti esitanti e stacchi informali. Non mancano però punteggiature marcate, come i fermi in macchina, i ralentì - che riaffermano l'autorialità e si caricano di significato con i dialoghi corrispondenti - e, non ultime, le scelte cromatiche high key, luminose e dense con colori caldi negli esterni e temperature blu e azzurre nella maggiorparte degli interni (una tavolozza che ben si sublima nei dipinti degli end-titles ).
Con l'entrata in scena di Rita Harrison (Michelle Pfeiffer), l'avvocato freddo e distaccato che assiste Sam nella sua causa, il testo evolve in un'articolato e riuscito studio di caratteri, regalando così ai due protagonisti una preziosa occasione recitativa. Penn e la Pfeiffer, infatti, oltre ad impostare subito un potente 'gioco al massacro' di classe e misura recitativa, hanno modo di immergere i propri personaggi l'uno dentro l'altro facendo sì che le loro complesse e, apparentemente, diverse identità si correggano e si migliorino reciprocamente. Ecco dunque che Sam, allora, riesce ad acquistare, grazie all'avvocatessa, una matura autonomia rispetto al suo gruppo di amici, e Rita, conquistata a sua volta dalla vicenda e dalla purezza del suo cliente, si spoglia pian piano dell'indifferenza e dell'indole arrivista che la imprigionano, riavvicinandosi ai propri sentimenti e a quelli del figlio trascurato (il make-up e i costumi dell'attrice sono la cartina tornasole di questo sviluppo: prima visibilmente truccata e stretta in abiti dal taglio maschile, poi naturale acqua e sapone con vestiti che ne esaltano la femminilità).
Segmento importante ai fini di questa reciproca depurazione attanziale, oltre che raffinata esplicitazione di messa in scena registica, è un incontro, verso la fine del film, tra Rita e Sam nell'appartamento di quest'ultimo: la donna esorta l'amico, ormai deluso e amareggiato dal negativo decorrere del processo, a farsi coraggio e a perseverare. I due sono divisi da una parete di origami che Sam sta costruendo; servendosi di uno spazio ancora aperto nel 'muro' attraverso cui i due personaggi comunicano, la Nelson costruisce una serie di controcampi composti, mantenendo così, anche graficamente, l'isolamento che l'uomo ha imposto. La discussione si fa accesa e Rita con violenza rompe la parete, avanzando verso Sam che involontariamente la spinge ad aprirsi e ad esternare i suoi dolori, in un crescendo di enfasi e tensione che sfocia in una eccezionale prova attoriale, prima nello sfogo della Pfeiffer, poi nel sorreggerla e consolarla di Penn. I ruoli si invertono e si fanno speculari: Sam, ritardato mentale con problemi sociali e filiali, si fa protettore e consigliere della sua brillante e rampante avvocatessa con problemi sociali e filiali ("Come possiamo essere così diversi, eppure essere così uguali" recita, non a caso, 'Stellaluna', fiaba ricorrente in più di un'occasione nel racconto, sintetizzando, oltretutto, il sentito inno alla mutua comprensione di cui il film è portatore).
La svalutazione operata dalle voci preparatorie al film di cui si è prima accennato, colpisce, infine, anche l'aspetto musicale che, al contrario di quanto si è tenuto a reclamizzare (con obiettivi di mercato visibilissimi) è dominata dalle composizioni originali di John Powell, piuttosto che dalle cover dei 'fab four' (che comunque compaiono, dimostrando la loro ottima fattura e la loro valida funzione metadiegetica: Sam è infatti un grande appassionato del gruppo).
Il compositore inglese, proveniente dal clan zimmeriano "Media Ventures", si è adoperato efficacemente in uno score "piccolo", sviluppato in accenni melodici agrodolci e briosi affidati ad un esiguo organico esecutivo. Gli interventi sono il più delle volte risolti in brevi giri ritmici che si sincronizzano alle immagini sopratutto attraverso pause e attacchi repentini, anche se non mancano momenti di puro commento descrittivo: il disperarsi di Sam (incapace di affrontare un'incontro con Lucy dopo il suo affidamento ad una famiglia) su di un piccolo pianoforte - martellando i tasti con drammatica violenza - è uno di questi. Powell ricalca dapprima l'esecuzione del personaggio con un perfetto sincrono, allargando poi la composizione ad un più intenso e struggente momento melodico, mentre la Nelson dissolve il protagonista, ormai distrutto e accasciato sulla piccola tastiera, incrociandolo con la figlia in lacrime, addolorata dalla mancata visita del padre. Un commento, dunque, che lodevolmente si adatta allo spirito di un lungometraggio che, come il suo protagonista, dalla sua umiltà ricava la sua grande nobiltà.