Me and You and Everyone We Know

Catarsi in punta di piedi
di Maurizio Di Lucchio

 
  id., Usa, 2005
di Miranda July, con Miranda July, John Hawkes, Miles Thompson, Brandon Ratcliff.


Il cielo è sceso sulla terra per un momento. Ha lasciato Me and You and Everyone We Know e poi è tornato a infischiarsene dei destini umani. Clamoroso. Il primo lungometraggio di Miranda July è assolutamente clamoroso. Diverte. Stupisce. Intenerisce. Commuove. Conquista. Dipinge. Guarisce. La lista delle straordinarie sensazioni che suscita questo film potrebbe essere interminabile. Bisogna essere davvero cinici per non lasciarsi coinvolgere da questo piccolo capolavoro. Di solito, per apprezzare un'opera d'arte è necessario lasciare che si sedimenti dentro. Occorre che vada a contaminare lentamente tutte le regioni dell’'emotività, partendo da quelle più legate alle urgenze cognitive e arrivando a quelle più intime e pulsionali. L’'esordio della July, anche rivisto dopo una settimana, continua ancora a irradiare la sua magia. Non si è trattato soltanto di un colpo di fulmine: meno male. Eppure, la struttura di Me and You and Everyone We Know è abbastanza semplice: in una cittadina imprecisata degli Stati Uniti, le vite di una decina di persone si intersecano dando origine a una serie di situazioni difficili che sfociano sempre in sofferenti epiloghi nutriti da un barlume di speranza. Il percorso è quello tipico del film corale “made in Usa: tutte le storie che si incastrano ad arte, il montaggio sincopato che detta tempi e priorità narrative, la musica che si ripete nelle varie vicende e si infittisce quanto più si stringe la ragnatela che le tiene insieme. Uno schema così costruito ricorda da vicino gli “archetipi” più recenti del genere: America oggi di Altman, Magnolia di Paul Thomas Anderson, e visto che di cinema indipendente americano stiamo parlando, soprattutto Happiness di Todd Solondz. Lo scarto tra Me and You and Everyone We Know e tutto questo tipo di produzione risiede nella presenza delle vie di fuga. Tanto per cominciare è notevole il modo in cui la July costruisce le valvole di sfogo del tessuto drammatico delle storie. Di solito, gli eroi tragici della cinematografia indipendente americana finiscono quasi sempre con il soccombere alla loro stessa condotta. Pongono autonomamente le fondamenta per la situazione che finirà per schiacciarli: l’'altro è una pedina del tutto superflua e non interagisce veramente con il dramma di ogni singolo personaggio se non andando a comporre vorticosamente quella “coralità” che enfatizza a poco a poco il pathos della vicenda. D'altronde, la funzione del “coro” nella tragedia greca era proprio questa, l’'intervallo che serviva da preludio alla catarsi conclusiva. In questo tipo di opere, il finale è appunto una liberazione dal male che i personaggi si sono creati da sé, senza neanche accorgersene. Pertanto gli eventi purificatori di tutto il “marcio” che è stato prodotto per vie endogene non possono che essere estremi, luttuosi al punto da fare “piazza pulita” di tutto. Esemplare a tal proposito è la morte del ragazzo innocente in Crash di Paul Haggis. Lontano da questa parabola pressoché standard, Me and You and Everyone We Know presenta una catarsi in punta di piedi. Tutte le volte che il circuito narrativo sembra condurre a un epilogo brutale, i personaggi hanno un ripensamento e riscoprono quel tanto di dignità necessaria a salvare il salvabile. Lo sguardo commosso della regista restituisce a ognuno la possibilità di sperare perché osserva la solitudine desolante dei suoi protagonisti e rintraccia in essa la causa delle colpe che devono espiare. Per questo fa in modo che la redenzione finale sia fluida e non urlata, in grado di stemperarsi anche in brevi immagini, come la sequenza del quadro sull’'alberello o i dettagli dell’'opera d’'arte dedicata alla vecchia che muore. Punte di piedi sono anche quelle di una scena memorabile in cui si racchiude, più che in ogni altro momento, l’'ennesima scappatoia che offre il film: la poesia. Tutto si lascia andare al lirismo, senza nessun punto di forzatura. Ogni scena si abbandona ai colori e anche gli eventi più scandalosi (i biglietti pornografici rivolti alle due adolescenti) si ritagliano silenziosamente un'insperata bellezza. C’'è poesia nella solitudine, nell’'insicurezza, nel vuoto, la medesima gamma di sentimenti abissali rappresentata nelle altre pellicole del genere. Qui, però, niente è disposto in modo da creare “cappe” insostenibili. Il pessimismo cosmico cede il passo all’'incontro. Gli amori che nascono e quelli che finiscono, senza alimentarsi del sesso come unico canale di comunicazione, generano un invisibile erotismo consolatorio che si nutre dell’'ingenuità e della leggerezza di tutti i personaggi. In questa chiave, l’'aspetto ludico del film dona luce anche alle piccole catastrofi, fa apparire come naturale l’'audacia di tutte le scelte più “oscene” dell’'autrice. Infatti, il linguaggio intensamente “politically uncorrect” vira verso un originale “tenderly uncorrect” grazie alla delicatezza con cui viene affrontata anche l’'azione più scabrosa. Tra le varie scene, ce n’'è una in cui una donna matura bacia sulle labbra un bambino di 8-9 anni: questo non è un gesto per benpensanti! Così avanti nella rappresentazione del possibile si erano spinti in pochi. Tuttavia, il disagio provocato viene attutito dalla trasparenza con la quale viene dipinto il background emotivo dei due personaggi. E’' talento, nient’'altro. Lo sguardo femminile della July, dopo una miriade di film disgustosamente “uterini, regala al cinema indipendente realizzato da donne una dolcezza e un’'umanità a tutto tondo che finora mancavano. Come a dire che, per entrare nel regno del cinema, bisogna farsi bambini, anzi bambine. Senza perdere minimamente la propria femminilità. Non è un caso che ci si innamora di Miranda July dopo soli tre fotogrammi in cui è ripresa. Ci possiamo innamorare io, tu e tutti quelli che conosciamo.