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Mies
Vailla Menneisyyttä, Finlandia, 2002
di Aki Kaurismäki, con Markku Peltola, Tähti,
Kati Outinen, Kaija Pakarinen, Sakari Kuosmanen, Juhani Niemelä
Affrancato dalle lacerazioni
noir che una storia del genere parrebbe imporre, il protagonista sconosciuto
di Mies Vailla Menneisyyttä si sveglia senza ricordi dopo
essere stato picchiato, per entrare in un mondo che, per una volta,
sembra meno oscuro e impraticabile di quello - misterioso - da cui proviene.
O fugge, a giudicare dalla sua valigia e da quello che contiene. Ma,
come detto, non è il noir e non è il mistero ciò
che attira Kaurismäki, e il film sembra metterlo in chiaro subito.
Il regista finlandese guida l'attenzione dello spettatore sull'esercizio
della riscoperta di un uomo. Una riscoperta che non porta ad una rivelazione,
quanto ad una redenzione. Perché non è realmente una scoperta,
quanto una riscrittura. L'uomo senza passato di Kaurismäki è
un uomo riscrivibile. E la direzione della riscrivibilità è,
nonstante alcuni elementi "di genere", fortemente intrapresa
con limpidezza dal film attraverso un elemento primario dell'immagine:
il colore. "Dovevo trovare l'ottimismo senza perdere l'appiglio
con la realtà, fare un moderno neorealismo a colori (...)
Il realismo della storia è in superficie. I colori sono lo
sfondo": le parole del regista usate per Nuvole in viaggio
denunciano una coerenza stilistica che in Mies Vailla Menneisyyttä
raggiunge forse l'apice. Il controllo estremo su saturazione e definizione
ritaglia perfettamente ambienti e personaggi, da un lato appiattendoli
in un mondo dal dècor di perfetto tempismo (ogni cosa sembra
assolutamente e surrealmente al posto giusto al momento giusto), dall'altro
esaltando ogni ruga, ogni gesto, ogni battuta, in modo che la messa
in scena minimale crei una tensione per cui "anche un piccolo
colpo di tosse diventa drammatico". Le figurine di carne di
Kaurismäki si spostano così in un mondo insieme iperreale
e sopra le righe, dove tutti posseggono movenze bressoniane e una disarmante
ironia che è oltre il cinismo per diventare impossibilmente commovente.
In questo ambiente ogni codice viene riscritto sotto il segno di una
linearità instancabile che persegue l'attimo perfetto in cui
luce, angolo di ripresa e attori convergano nello sforzo di reinterpretare
i sentimenti, e attraverso questo processo riescano a sospendere l'incredulità
dello spettatore. In questo senso il film di Kaurismäki (e il suo
cinema in generale) è ammantato di un'aura quasi science-fiction,
in cui ci viene chiesto di spogliarci dai pregiudizi e dalle abitudini
che il cinema generalmente ci fornisce - nel tentativo di convincerci
del realismo della messa in scena - per abbracciare il mondo violentemente
pastellato del regista finlandese. Il tutto restando nel gioco sentimentale
del dramma e del melodramma, di cui comunque Kaurismäki richiede
al suo cinema i risultati sulle emozioni del pubblico.
Il processo sottile per cui il protagonista si ricostruisce ex-novo
un'esistenza e il suo percorso verso un sé migliore hanno dunque
il sapore di una riscrittura di se, non tanto in bella calligrafia quanto
in una forma grammaticale più armoniosa e appagante. Il passato
infelice del protagonista che per un attimo ritorna alla fine del film
non è lì per rovinare o minare le nuove conquiste personali
dell'eroe: è un confronto antimelodrammatico, ironico e risolutivo
con quanto si è scoperto di non essere più e, in fondo,
di non esser mai voluti essere. l'Uomo senza passato
descrive dunque sottilmente un processo correttivo che non prevede indirizzamenti
o costrizioni terapeutiche, ma un'evoluzione naturale che attraversa
le atmosfere dei conteiner del porto di una Helsinki in parte reale,
in parte ricolorata, completamente riscritta.
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