Litigi d’amore

La famiglia barcolla ma non cede
di Manuela Latini

 
  The Upside of Anger, USA/Germania/UK, 2005
di Mike Binder, con Joan Allen, Kevin Kostner, Erika Christensen, Evan Rachel Wood


Visto il titolo e la locandina è lecito avere l’aspettativa di assistere alla solita commedia sull’amore leggera e commerciale. Sospendendo ogni pronostico, lo spettatore, se predisposto, può rimanere invece piacevolmente sorpreso.
Mentre scorrono le immagini di un funerale, la voce dell’io narrante, che scopriremo essere la giovane Popeye, inizia a raccontare il proprio odio verso la madre. È un flashfoward che per un attimo svela il finale della matura love story, ma con un disincanto che stimola la curiosità: l’odio e l’amore iniziano a confondersi. La scomparsa improvvisa del marito fuggito con la segretaria svedese, getta infatti Terry (Joan Allen) nello sconforto e le fa uscire fuori una rabbia antica, forse covata da anni. La famiglia è raccolta a tavola per la colazione. In camicia da notte, con lo sguardo freddo e rabbioso, Terry racconta alle sue quattro figlie la verità. La notizia scardina un equilibrio già precario, ma le reazioni dei personaggi si mostreranno a poco a poco, come spesso accade nella vita reale. Il film è costruito come un piccolo pamphlet sulla famiglia, sulla difficoltà di interazione e di comprensione tra figli e genitori, sull’odio che si può coltivare per chi è troppo diverso ma si deve rispettare, sull’amore che si prova per i legami familiari, dal sangue avvelenato, a prescindere da tutto. Joan Allen interpreta meravigliosamente la parte di una madre scomoda, incostante, problematica, molto meno matura delle sue quattro figlie: davvero moderna. Se lei si chiude nel vittimismo alcolico di chi è convinto di aver sbagliato tutto nella vita, le quattro “piccole donne” mostrano ognuna un modo diverso di elaborare il dolore della perdita paterna e di affrontare il pericoloso vincolo materno: la sensibilità repressa della ballerina che si ammalerà di ulcera (Emily), la superficialità della prorompente aspirante giornalista (Andy), l’egoismo della collegiale che finirà per sposarsi incinta (Hadley), la forza e il silenzio burrascoso dell’adolescenza per la più piccola, che guarda con curiosità la vita degli adulti (Popeye). In questa prospettiva può essere visto come un film sulle donne, senza voler scadere nella solita autocelebrazione della forza femminile: ci si compiace solo della capacità riconosciuta di usare l’ironia come ingrediente principale per far lievitare una vita a volte un po’ troppo faticosa, altre volte solo piatta e scialba.
L’impianto narrativo è ben articolato, mai noioso e molto realistico. I toni del film comprendono il grottesco, il drammatico, il comico, ma l’amaro rimane in bocca più spesso del sorriso: è un retrogusto apprezzabile quando è, come in questo caso, fonte di riflessione.
L’atmosfera è quella ben nota dell’anonima cittadina di provincia americana dove tutto scorre tranquillo: le villette basse, residenziali, circondate dal verde, un unico supermercato dove ci si incontra per caso. La sceneggiatura risulta tutto sommato divertente ma ostentatamente filosofica laddove la giovane Popeye, infilando perle di saggezza a volte un poco stucchevoli, seppur perfette nel contesto, scova la falla che c’è nelle relazioni tra gli uomini: la rabbia nascosta dietro alla perdita dell’amore, l’incapacità di amare per la paura di soffrire: “La gente non sa come si ama. Morde invece di baciare. Prende a schiaffi invece di accarezzare…” E incoraggia a provare una sana e propositiva collera verso la vita: “La rabbia è motivata… anche quando non lo è, può cambiarti. L’unico lato positivo è la persona che diventi… la rabbia come la crescita arriva a scatti… e a strappi… e al risveglio… offre un nuovo giorno alla comprensione… e una promessa di quiete”; così come sprona l’amichetto gay, che vorrebbe traviare, ad affrontare le sue paure nell’ansia di imitare un padre supercoraggioso.
Oltre alle varie gag divertenti (la migliore è quella della testa del fidanzato della figlia che esplode nella fantasia di Terry) e ai momenti drammatici (la malattia di Emily), l’altro lato piacevole -perché quasi catartico - del film sta nella guerra che i personaggi fanno alle loro debolezze, proprio aiutati dalla rabbia: una guerra, tuttavia, non sempre vittoriosa. Se Terry riesce infine a vestire i panni della madre modello rinunciando alla bottiglia, Danny (un Kevin Kostner ingrassato di 5 kg per la parte), ex giocatore di baseball, ora dj senza stoffa, rifiuta di guardare sobriamente il proprio insuccesso, ma firma ancora palline da eroe sportivo per i bambini. L’astio e l’amarezza non sembrano abbandonarlo e travolgono ad un certo punto la nuova compagna di fronte a un suo ultimo, isterico insulto. Questo è l’unico momento in cui il personaggio dimostra una pur misera consistenza, apparendo infatti, nel complesso, come l’elemento più debole del film. Una interpretazione sicuramente poco premiata dal doppiaggio italiano, giudicata a ragione inedita da molta critica internazionale, rimane all’ombra di quella della pregevole Joan Allen, più volte nominata all’Oscar ma mai premiata. Mike Binder, regista e interprete del suo film è riuscito a ottenere ciò che voleva: un film autobiografico sulle conseguenze della separazione nelle famiglie. Una sorta di esperimento sui generis, il cui antefatto è far sparire improvvisamente un padre e un marito per poi farlo infine ritrovare, con un inutile colpo di scena, dentro una buca nel terreno dietro la casa. L’esperimento è riuscito. La famiglia è rimasta in piedi, barcollante ma ancora intera: un’icona del nostro presente.