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Riyadh, Arabia Saudita, 1996. Il
compound di Gulf Oasis, in cui alloggiano gli impiegati di una società
petrolifera americana con i loro familiari, subisce un terribile attacco
terroristico che provoca la morte di oltre cento persone, tra le quali
resta vittima un agente federale statunitense.
Mentre i burocrati sono impegnati in questioni di territorialità,
lagente speciale FBI Ronald Fleury e la sua squadra di primordine
creano una task-force e organizzano un viaggio segreto di cinque giorni
nel regno saudita per localizzare luomo che ha ordito lattentato.
Nel momento in cui mettono piede nel territorio arabo, però,
Fleury e il suo equipaggio si rendono conto che le autorità locali
sono sospettose nei loro confronti. Vincolati da un rigido protocollo
e angosciati dai limiti di tempo stabiliti dal governo del luogo, gli
agenti scoprono che tutta la loro abilità ed esperienza non hanno
alcun valore se non possono avvalersi della collaborazione delle controparti
saudite che, dal canto loro, intendono localizzare i terroristi con
i loro metodi. Fleury scopre delle affinità con il colonnello
saudita Al Ghazi che ha il compito di proteggere gli ospiti americani.
Mentre Al Ghazi aiuta Fleury a comprendere la politica locale e a carpire
i segreti della scena del crimine, i due scoprono le attività
di una feroce cellula terroristica. I due uomini, pur provenendo da
mondi profondamente diversi, trovano la stima reciproca e si uniscono
in un grande obiettivo comune.
In un presente segnato da una conflittualità perenne, fortemente
voluta e stimolata da quella grande narrazione messa in piedi dalla
destra radicale statunitense (prima e) dopo l11 settembre, una
parte importante del cinema americano mainstream diventa un grande metatesto
che travalica opere e generi e che prescinde dalle autorialità
coinvolte nei singoli progetti, per diventare a sua volta rappresentazione
estetica globale, veicolatrice della nuova visione del mondo imposta
dai teocons. A differenza della Hollywood radical che fin dallinizio
si è schierata contro la politica estera del presidente Bush
e che ha reagito attraverso singoli autori che con le loro opere hanno
gridato il loro atto daccusa e la loro contrarietà alla
guerra. In molti film che appartengono a questo grande metatesto si
può individuare addirittura un comune stile di regia, un modo
di inquadrare e di girare, un modo di raccontare il mondo con unestetica
precisa, a prescindere da chi siano gli autori, probabilmente perché
negli studios i veri autori sono, spesso e da sempre, i produttori esecutivi
e non i registi. The Kingdom, rientra in pieno in questa
categoria e avendo come executive Michael Mann, si capisce subito quale
sia lo stile di cui si sta parlando. Thriller dal ritmo tiratissimo,
con particolare attenzione alle psicologie dei personaggi, grana grossa
dellimmagine digitale, uso frenetico dello zoom in cui la funzione
diegetica coincide perfettamente con la funzione linguistica (si afferma
sempre di più uno sguardo a distanza, lo sguardo dello spionaggio
satellitare, lo sguardo esclusivo delle strategie militari nei conflitti
postmoderni), fotografia dominata dai colori gialli del deserto mediorientale,
in una sorta di iperrealismo che a volte ha il gusto della fascinazione
esotica, a volte quello dei war games di propaganda delle consolle di
ultima generazione.
Attraverso questo linguaggio, questo stile che ha informato di sé
gran parte della migliore produzione hollywoodiana degli ultimi anni,
in questa estetica collaterale (illuminanti le inquadrature dallalto,
in notturna, sui suv neri dei servizi sauditi in corsa per le strade
costeggiate dalle grandi palme e dalle luci sfarzose dei palazzi regali,
quasi uno slittamento di Los Angeles nella penisola arabica), The
Kingdom racconta il fuori campo della strategia militare del
governo americano dopo l11 settembre, uno degli eventi precedenti
e preparatori delle guerre in atto. E lo fa attraverso il western, modello
esplicito di riferimento nel film di Berg: il pericoloso quartiere di
Riyadh, agglomerato di covi terroristici, sembra un vero e proprio villaggio
western di frontiera, uno spazio costruito come insieme di muri che
proteggono dal fischiare delle pallottole e dai quali angoli spuntano
allimprovviso buoni e cattivi per spararsi addosso. Ma che, al
tempo stesso, mantiene il carattere di riserva indiana, luogo di confino
del religioso proletariato arabo che combatte la corrotta monarchia
wahabita. Non è, ovviamente, soltanto questione estetica: del
western classico The Kingdom mantiene soprattutto la
retorica manichea per cui i democratici allora al governo sono rappresentati
come burocrati che con la loro cauta politica fondata sulla diplomazia
rimangono di fatto immobili e incapaci di reagire, la monarchia saudita
(preziosissimo partner della compagine politico-economica dei teocons)
come un governo non ambiguo ma chiuso e fondamentalmente onesto nella
sua war on terrorism, la task force formata dellFBI come manipolo
di valorosi soldati, espressione diretta del pragmatismo interventista
del governo americano. Dallaltro lato, i terroristi, il male assoluto.
Nessuna sfumatura, nessuna ambiguità, nessuna ambivalenza. In
un mondo dominato dalla complessità, lestrema semplificazione
attuata dallopera di Berg (in questo senso il film sembra pochissimo
opera di Mann, regista che, come Soderbergh, lavora molto di più
sulle stratificazioni, sulle derive di senso, sulle ambiguità
del racconto e dei personaggi) rispecchia fedelmente la favola della
lotta del Bene contro il Male che da anni George W. Bush si impegna
a raccontare. Esemplare lincipit del film: ottanta anni di storia
e geopolitica della regione mediorientale ridotti a una serie di passaggi
causali, ferramente concatenati fra loro dal punto di vista logico,
che non può avere altro sbocco possibile se non la tragedia attuale
della guerra.
Chissà quanti altri prodotti ben confezionati come questo arricchiranno
la grande narrazione metatestuale in attesa dellIran
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