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id.,
Usa, 1999
di Harmony Korine, con Ewen Bremer, Chloe Sevigny,
Werner Herzog
Il pericolo è concreto, e lallarme lo lanciamo adesso sperando
di sbagliare. Non vorremmo infatti che Julien: donkey boy subisse
lo stesso trattamento del precedente film di Korine, vale a dire Gummo,
il quale era un vero film "anti"; Bernardo Bertolucci lo indicò
come film assolutamente rivoluzionario nel linguaggio cinematografico;
Gus Van Sant sostenne: Korine ha creato un prodotto completamente
originale tanto che etichettarlo sarebbe impossibile, perchè
si dovrebbe creare una categoria speciale. Tante sono le influenze:
Godard, Herzog, Cassavetes, Fellini; ma anche anti-influenze come MTV.
In effetti Gummo fu un film essenziale per il cinema
di questa decade: un vero pugno nello stomaco, un boccone di traverso.
Assieme a Kids (sceneggiato da Korine), un ritratto
grezzo e spiazzante della generazione post-grunge, senza valori, che
spingeva continuamente a chiedersi: Cosa stiamo guardando
esattamente? Sono persone vere? Cè un copione o è
tutto improvvisato?
Probabilmente gli stessi quesiti di chi assiste a Julien,
il quale, smorzando il mio iniziale pessimismo, godrà di una
distribuzione migliore (ci vuole poco!) in virtù della parentela
estetica con il Dogma 95 di Von Trier e compagni, le cui linee
guida hanno affascinato il venticinquenne regista, primo americano a
seguire tali dettami. Per onestà bisogna ammettere che fu Lars
Von Trier a telefonare a Korine suggerendogli di fare di Julien
un prodotto Dogma, forse proprio perchè si era accorto della
notevole forza sperimentale di Gummo, che pur non seguendone
pedissequamente i comandamenti, era sicuramente conforme ad una azione
di salvataggio di un cinema della decadenza e del romanticismo borghese
come è indicato in esergo sul manifesto dei neo-avanguardisti
danesi.
Del resto Julien: donkey boy (dogma # 6) vanta alla
fotografia il "festeniano" Anthony Dod Mantle e al montaggio
Valdis Oskardottir, che ha lavorato sia per il film di Vinterberg che
per Mifune.
Il film di Harmony è completamente privo di un centro, è
un miscuglio di immagini che scardinano la linearità del racconto;
un racconto che ha come protagonista Julien (Ewen Bremner), un ragazzo
shizofrenico che lavora in una scuola per non vedenti e che appartiene
ad una famiglia con un padre violento e autoritario; una sorella (Pearl-Chloe
Sevigny) incinta (e il finale straziante rivela che è proprio
Julien il padre); Chris il fratello atleta sulle cui potenzialità
si concentrano i comportamenti fascistoidi del padre (Werner Herzog).
Un mondo parallelo, infimo, deforme. Come in Gummo,
Korine disegna, anzi scarabocchia (non in senso negativo) un America
dannata attraverso unimmondezzaio di personaggi difficile da accettare
a livello visivo, perchè crea una strana forma di suspence per
la quale noi aspettiamo lennesima comparsa freak, lennesimo
segno che sia utile per comprendere il disegno generale del film, che
colmi il dubbio espresso anche da Gus Van Sant: ma cosa stiamo vedendo?
La trasgressione consiste nel mostrare le cose di tutti i giorni ma
spostate; cè tutto: la famiglia, il lavoro, i rapporti
genitori- figli, quelli fraterni, quelli damicizia, ma sono espressi
grottescamente, di traverso; e come in Gummo dove la
quotidianità nella cittadina dellOhio, Xenia, devastata
da un tornado, procede come parallela ad una vita normale; anche in
Julien la vita va avanti costantemente ma zoppicante,
e a renderla tale sono i personaggi i cui comportamenti e il cui aspetto
fisico indicano a volte contatti con latmosfera circense.
Tale tragressione, in Julien, è riscontrabile
ovviamente anche dal punto di vista linguistico in un film magmatico,
visivamente confuso come il tumulto mentale del protagonista la cui
schizofrenia è stratificata come la diegesi: disturbante, crudele,
mistica, impulsiva.
Lassemblaggio di immagini in un collage irregolare comporta una
proliferazione visiva intrisa di riverberi narrativi e un caos organizzato
di frame stop, sovrapposizione di istantanee, di polaroid, videocamera
a mano, telecamere montate addirittura su un paio di occhiali per non
parlare di quelle fisse, nascoste, di solito usate per la sorveglianza.
Accennavamo prima alle anti-influenze quali MTV, ma non si può
escludere unaltra fonte visiva attuale, ossia Internet con il
voyeurismo delle web-cam, o più semplicemente il non lineare
percorso seguito durante la navigazione che non permette nessuna ipotesi
sulla natura dellimmagine successiva sia nel soggetto, che nella
qualità fotografica; un percorso centrifugo, sorprendente; un
Cinema dellintrusione la cui significazione è soggettiva
e scopribile solo alla fine del viaggio stesso.
Anche i codici sonori sono espressi mediante un overlapping di rumori,
parole e musica ON e OFF (quindi sempre presenti sul set, mai aggiunti
in fase di post-produzione) in cui ad esempio le voci di sottofondo
si ottengono mettendo degli attori al di qua della videocamera durante
le riprese; la musica è eseguita mentre si riprendono gli attori;
stesso trattamento per le immagini fermate e sovrapposte in fase di
ripresa.
Ma Julien: donkey boy non si limita solo ad una esagerazione
linguistica perchè è anche un film dal profondo senso
religioso, ma quello personale, non istituzionalizzato, un senso crudele
della religione e della vita dalle assonanze artaudiane. Limpatto
emotivo di Julien che corre dallospedale verso casa sulle note
di "O babbino caro" di Puccini, con in braccio il feto morto
della sorella caduta malamente sulla pista di pattinaggio, e dove insieme
al feto stesso si accuccia in se stesso dentro il letto, è straziante;
trascende ogni definizione restrittiva di affetto, amore, istinto vitale;
quello stesso istinto libero che Julien sprigiona in maniera atrocemente
inversa nella sequenza iniziale in cui uccide un bambino con la violenza
inaudita che solo un animale ferito o un malato psichico possono possedere.
Un film di una sacralità ruvida, velenoso, incestuoso ma nello
stesso tempo casto, e forse sì, anche politicamente scorretto.
Ma inspiegabilmente, il personaggio Harmony non ispira fiducia. Non
per il talento bensì per unipocrisa di fondo che molti
spettatori, cinefili, critici riscontrerebbero. "Un finto"
hanno dichiarato molti. Forse solo un personaggio scorbutico che fa
film scorbutici. Se è veramente eversivo o meno lo dovrebbero
dire i suoi lavori non i suoi atteggiamenti nelle interviste, nè
tantomeno spettatori le cui aspettative sono state violate e che sostengono
che Korine o il dogma o entrambi in questo caso imbriglino il Cinema.
Tuttaltro: il loro è un tentativo prezioso di liberare
potenzialità, di deformare un linguaggio per poi rimodellarlo.
E il convenzionale e reazionario rifiuto della sperimentazione
a strangolare il Cinema, a renderlo pedante e ad infilarlo in un buco
nero dove rischia di vegetare con un sorriso ebete sulle labbra, coccolato
dai cine-onanisti del buonismo.
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