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Jules et Jim, Francia,
1961
di François Truffaut, con Jeanne Moreau, Oscar
Werner, Henri Serre, Marie Dubois
Jules, Jim, Catherine, 40 anni dopo. La felicità, come recita
la voce fuori campo, si racconta male a parole, ma si consuma, e nessuno
se ne accorge: nessuno, sembra sottintendere Truffaut, al di fuori del
cinema. Jules e Jim rimane un edificio grandioso fatto di volti
e smorfie, sguardi e gesti inconsulti, una rincorsa impossibile dietro
le infinite combinazioni del desiderio e dell’ansia di vivere che lo
alimenta. Ci si ritrova a stupirsi di una narrazione che procede per
impennate improvvise, di una cinepresa che si infiamma in un inseguimento
o si congela in un fermo immagine, lungo un accavallarsi di trovate
in cui è inutile distinguere il marginale dall’essenziale o tracciare
un esatto percorso emotivo. La sfida, una sfida che appassiona a tanti
anni di distanza perché ancora pochi hanno il coraggio di affrontarla,
è quella di raccontare l’intimità dell’amore e dell’amicizia,
tanto più profonda quanto più mobile e sfuggente, affidata
soltanto a improvvisi momenti di sintonia perfetta: il luna-park dei
sentimenti, con le sue frenesie e i suoi umori imprevedibili, è
restituito in tutto il suo devastante luccichio, in quella morbosa illusorietà
che pure non può non sembrare un valore assoluto. Catherine,
dice Jim, sente il bisogno di reinventare l’amore continuamente ed è
così che Catherine reinventa anche la vita, sfuggendo alle caselle,
alla routine, divorando l’esistenza: è così, di conseguenza,
che Truffaut reinventa continuamente il cinema, comprime il tempo (il
racconto iniziale della nascita di un’amicizia), lo dilata (il lungo
e ravvicinato pianosequenza in cui Catherine confessa a Jules di non
amare più Jim), affonda nel melodramma più viscerale e
riemerge nella tagliente ironia della voce fuori campo, spazia con disinvoltura
nel materiale documentario di repertorio e corteggia con amore infinito
i volti dei suoi protagonisti. Anche la morte, sbocco naturale per l’ansia
inappagabile di Catherine, è asciugata da ogni impeto melodrammatico
e il doppio suicidio in automobile ha una leggerezza da comica del muto,
a cui segue, nuovo capovolgimento, il piglio documentario del lento
rituale funebre che trasforma i corpi in cenere. Di tutte le ossessioni
del regista francese presenti (dall’amour fou, tema prediletto della
Nouvelle Vague, alla passione per i libri e la scrittura) Jules e
Jim sembra racchiudere soprattutto l’aspirazione a un’eterna adolescenza,
un perenne apprendistato alla vita capace di giustificare la volontà
di non collocarsi definitivamente, di giocare, di travestirsi, di rinnovarsi
senza sosta. Il cinema ne esce contagiato fino a diventare un eterno,
meraviglioso adolescente, in perpetuo sommovimento anche dopo 40 anni.
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