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John Q, USA 2002
di Nick Cassavetes, con Denzel Washinghton, James Woods,
Robert Duvall, Anne Heche, Ray Liotta
E' stato istruttivo vedere questo film a un'anteprima stampa. I giornalisti,
gli stessi scioltisi in lacrime alla "morte del figlio" di
Moretti, ridacchiavano allegramente durante le scene più commoventi.
Sul momento la cosa mi ha fatto inorridire. Chi sono 'sti mostri?, mi
sono chiesto mentre le lacrime mi andavano di traverso. Davanti a me,
sullo schermo, un onesto padre di famiglia costretto a commettere un
crimine per garantire un trapianto al figlio in fin di vita. Una storia
vera, un film che grida la sua rabbia contro un sistema tanto efficiente
quanto spietato. Come si fa a ridere di tutto ciò?
Poi ho capito. Siamo in Italia, io sono uno spettatore, loro dei giornalisti.
Nonostante la lucida analisi sociale, anzi, proprio a causa di questo,
la critica nostrana non perdonerà mai a John Q lo sconfinamento
nel cinema "di genere". In un paese classista come l'Italia
non c'è niente di più risibile della commistione tra analisi
e intrattenimento. Come se fosse disdicevole per uno spettacolo cinematografico
pretendere di comunicare qualcosa di importante a un vasto pubblico.
Le riflessioni politiche o sociologiche appaiono troppo complesse per
un film "di consumo". Soprattutto perché, altrimenti,
bisognerebbe riconoscere l'assoluta mancanza di coraggio dei nostri
intellettuali, che si guardano bene dallo "svendere" i loro
contenuti all'ingrosso dell'intrattenimento popolare. Ufficialmente
perché é "troppo facile", ufficiosamente perché
é troppo democratico.
Da noi capita sempre più di rado che un film nasca da un'inchiesta
giornalistica o da un fatto di cronaca, e anche in questi casi, l'articolo
di giornale rimane un pretesto per smerciare fiction generalista, nella
"migliore" tradizione dell'exploitation nazionale. Un'operazione
di per sé non deprecabile se a supportarla ci fosse un briciolo
di onestà intellettuale.
Purtroppo, quando un "messaggio importante" riesce finalmente
a filtrare dalla carta stampata alla pellicola, il nostro cinema si
sente autorizzato ad accontentarsi di "averci provato", negandogli
di fatto visibilità. Come? Rinunciando a priori all'arma più
efficace che lo spettacolo cinematografico ha a disposizione: l'intrattenimento.
Che é poi ciò che permette a una storia di essere raccontata,
al suo messaggio di essere comunicato. Rendere popolare una vicenda
di pubblico interesse, dedicandole mezzi e denaro, sarebbe troppo sovversivo
anche per registi e sceneggiatori "di sinistra".
In America invece può accadere che da un fatto di cronaca realmente
accaduto venga tratto un film dal budget medio-alto e con star di prima
grandezza, un "prodotto culturale" capace di portare al cinema
un vasto pubblico, magari non direttamente interessato alle problematiche
sollevate, ma che, una volta pagato il biglietto, riceverà qualcosa
di più delle pattuite due ore di intrattenimento. In John
Q, questo qualcosa é una critica puntuale quanto spietata
del sistema sanitario americano, compiuta attraverso un caso limite,
esemplare quanto controverso: un "uomo comune" che ricorre
alla violenza per rivendicare i propri diritti. Un una scelta comunicativa
debitrice di un senso critico mai assopito, di una certa dose di coraggio,
e di una fondata fiducia nell'intelligenza sia dei personaggi che degli
spettatori. I generi cinematografici, in questo caso il melodramma che
sfoga la sua rabbia nell'action, diventano allora indispensabili strumenti
di divulgazione. Il dolore non dovrà sforzarsi di essere a tutti
costi anticonvenzionale, non ne ha bisogno. E il "lieto fine"
non dovrà necessariamente negarsi per dare valore a un messaggio
comunque chiaro e diretto.
Il suo fondamentale ottimismo, la "risibile" convinzione che
l'uomo sia artefice del proprio destino, la consacrazione dell'eroe
nonostante l'errore e la sconfitta, hanno permesso a questo filone "arrabbiato"
di perpetuarsi, laddove il nostro cinema popolare, anche quando i suoi
autori ancora osavano "scomodare i santi" ha sempre negato
ai suoi personaggi (e al suo pubblico) la possibilità non solo
di vincere, ma neppure di affrontare il potere. Un John Q diretto
da un Risi (padre o figlio), o da un Lizzani, probabilmente si sarebbe
concluso dove questo comincia: con la constatazione che la vita del
figlio di un operaio nero vale meno di quella di un vecchio miliardario
bianco.
Questo film, che pure non si candida ad entrare nella storia del cinema
per le sequenze memorabili o per il tocco personale del regista, é
uno spettacolo costruito per parlare di un momento storico a chi lo
sta vivendo, nel momento esatto in cui le cose accadono, un film di
pubblica utilità che sa di avere un'occasione e non vuole sprecarla.
E' frustrante constatare che, per motivi non economici ma essenzialmente
culturali, il nostro cinema, con una reputazione costruita sul neorealismo,
un materiale sconfinato al quale attingere, e soprattutto una reale
necessità di analizzare la società, non é capace,
né desideroso di fare altrettanto. Insomma, c'è ben poco
da ridere.
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