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id., Usa, 2006
di Spike Lee, con Denzel Washinghton, Clive Owen, Jodie
Foster, Willem Dafoe
Prendete un produttore di Hollywood tra quelli più proficui e
blasonati, unitelo ad uno dei registi più indie della
scena americana, amalgamateli con la sceneggiatura di un perfetto esordiente,
e fate distillare il prodotto attraverso una manciata degli attori oggi
più ricercati sulla piazza. Poi godetevi il risultato che avete
tra le mani, che sintitola Inside Man. Il primo
lavoro veramente mainstream di Spike Lee, prodotto da Brian Grazer e
sceneggiato da Russell (chi era costui?) Gewirtz, è un film perfettamente
riuscito, un long drink di azione e tensione, intelligente e raffinato,
divertente e perfino sorprendente, per certi versi. Lo si beve tutto
dun fiato, senza starci a pensare, salvo poi accorgersi, alla
fine, che non è cinema da bere, malgrado le apparenze o le credenziali
di partenza. Gli si conceda pure una notevole scaltrezza nella confezione
formale, che blandisce lo spettatore in maniera molto piacevole e sorniona
fin dai titoli di testa e fin dallattacco incalzante della colonna
sonora (un pezzo di musica bollywood remixato in salsa club
che decisamente sa il fatto suo); gli si conceda anche la partenza in
quarta, calibrata ad arte, che richiama alla memoria tanto cinema glorioso
degli anni 70, quel cinema di rapine e di guardie e ladri che
trova la sua forma paradigmatica in Quel pomeriggio di un giorno
da cani. Ma tutto ciò che nel film potrete trovare di
mainstream nel senso più malizioso della parola, cioè
usato ad arte per accattivarsi i favori del botteghino strizzando locchio
al pubblico più frivolo, è in realtà al servizio
di una storia di assoluta dignità narrativa, tanto da aver fatto
e questo è un vanto non da poco - respirare una grande
boccata daria fresca proprio a quel cinema che omaggia, e che
poteva correre il rischio di restare vittima di quella stessa claustrofobia
che dipinge e che ispira. Perché malgrado le iniezioni di adrenalina
che Lee e il suo direttore della fotografia (Matthew Libatique, che
girava video musicali di un certo livello fino a che un certo Aronofsky
non lha scoperto e Joel Schumacher, lungimirante qual è,
se lè accaparrato) ci somministrano allinizio, la
vena action della narrazione subisce una sorta di calcolato inaridimento
dopo i primi venti minuti, per andare a incastrarsi in un macroscopico
stand off, uno stallo. Rapinatori dentro, polizia fuori;
in mezzo: una cinquantina di ostaggi. Niente di più classico.
Poi, piano piano, il detective Frazier, che ha il faccione simpatico
(fin troppo, ma tanto gli vogliamo bene uguale, no?) di Denzel Washington,
si comincia a fare le domande che già in sala anche noi ci stiamo
facendo. Qualcosa non quadra. Anche Frazier, sudato e a disagio, si
sta rendendo conto che quel pivello dello sceneggiatore o non sa niente
di rapine in banca, o forse ne sa pure troppo. Infatti benché
vengano tenuti in piedi i cliché del caso, la fisionomia della
storia prende una via sua, prima in maniera sottile, poi sempre più
evidente, e le cose si mescolano, diventano più sfumate, forse
qualche cattivo non è così cattivo come sembrava, forse
qualche buono la coscienza proprio candida non ce lha. Entrano
in gioco altri personaggi, una adamantina Jodie Foster, un impeccabile
Cristopher Plummer; altri tasselli di una vicenda che sembrava una rapina
e basta, e invece forse è solo la punta di un iceberg. Cè
qualcuno che si sta prendendo gioco di tutti. In realtà chi ci
mena per il naso è sia il prode Clive Owen dentro lo schermo,
che ci regala una piacevolissima interpretazione anche quando è
costretto a recitare bardato con occhiali e fazzoletto sul viso, una
delle più belle figure di criminale smart degli ultimi
tempi (senza mai intruppare nel gigionesco ultra-cool e irritante, nello
stile del Mr Ocean di Clooney, per intenderci); sia, di qua dallo schermo,
il summenzionato Russell Gewirtz, lo scrittore della storia. E la sensazione
è proprio quella di essere stati portati per un divertente detour
lungo più di due ore, in giro per un tipo di film, quando ciò
che vedevamo era quello ma contemporaneamente anche qualcosa daltro.
Tutto per colpa di uno Spike Lee in piena forma (complice anche uno
scrittore indiscutibilmente dotato, per quanto alla sua prima prova)
che se rinuncia per una volta a fare il suo cinema, lo fa nella maniera
più intelligente possibile, rivisitando un genere a lui non familiare
e rimaneggiandolo da dentro, senza stravolgerlo, ma inserendo solamente
la sua mano allinterno, presente e invisibile. Inside
Man ha infatti anche questo pregio: è girato da uno
dei più importanti e indipendenti autori americani (e qui la
parola autore meriterebbe non una ma sei maiuscole), eppure,
salvo qualche indizio tecnico qua e là, Spike Lee resta leminenza
oscura, completamente al servizio della vicenda che vuole narrare e
dei personaggi a cui vuole dare vita, senza imporre la sua mano, senza
lasciare firme debordanti. Una bella lezione dumiltà, cioè
di grandezza. Fossero tutti così, i divertissements
dautore.
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