In ostaggio
A scuola da Mann
di Giulio Frafuso

 
  The Clearing, Usa, 2004
di Pieter Jan Brugge, con Robert Redford, Helen Mirren, Willem Dafoe, Alessandro Nivola.


Wayne, un uomo che ha rischiato ed ha avuto successo, viene rapito da Arnold, uno che invece successo non ne ha avuto; attraverso il confronto tra vittima e carnefice, ed insieme alle vicende della famiglia – soprattutto della moglie – viene raccontata una storia di solitudini umane e sociali, in cui tutti i protagonisti di The Clearing sono ugualmente immersi. Il lato oscuro del sogno americano è fatto, certo, di uomini travolti dal disequilibrio sociale ed economico di un paese sempre contraddittorio, ma anche di uomini che per l’american dream hanno rischiato di smarrire il senso della vita, l’amore per i familiari, ecc. Tutto questo non viene esplicitamente e retoricamente raccontato da questa pellicola, ma passa allo spettatore grazie all’arguzia ed alla sensibilità di una messa in scena preziosa quanto intimista, che sfrutta la meglio le potenzialità di tre grandi attori – Willem Dafoe ed Helen Mirren sono come al solito da brivido, ma a sorprendere è un Robert Redford capace di perdersi nella fragilità del personaggio, il migliore che gli sia capitato da anni a questa parte.
Ecco un film indipendente che riporta immediatamente la memoria al cinema americano degli anni ‘70 - quello di autori come Sidney Lumet, , Alan J. Pakula, Sidney Pollack e soprattutto Arthur Penn, tanto per intenderci - e che allo stesso tempo dimostra di saper seguire le orme ed i dettami stilistici del miglior prodotto contemporaneo. Pieter Jan Brugge, produttore di due opere straordinarie come Heat e The Insider di Michael Mann, dimostra di aver assimilato in pieno il modo di comporre l’inquadrature di quello che è senza dubbio il più grande narratore per immagini del nostro tempo: anche in The Clearing, come nelle migliori opere di Mann, basta la precisa e tagliente descrizione di un primo piano per raccontare un mondo interiore, togliendo così alla retorica della parola un’inutile pesantezza; sugli sguardi confusi di Helen Mirren, negli occhi indecisi e fragili di Willem Dafoe, o in quelli rabbiosi di Robert Redford, il regista riesce a costruire un’intensità pregnante ma non invasiva, urlata. La confusione, lo sdegno, la paura, vengono fuori in un crescendo mai banale o capace di annoiare lo spettatore. In questo senso, grande prova di compattezza ed omogeneità fornisce la sceneggiatura dello stesso Brugge e di Justin Hayte, autori di dialoghi capaci di filtrare attraverso la forma delle parole non solo la drammaticità dell’evento raccontato, ma soprattutto lo smarrimento esistenziale di tre personaggi vittime del proprio mondo prima che degli eventi narrati. Altra grande trovata del film è la gestione dello “spazio temporale” del racconto, che improvvisamente si sdoppia e fornisce allo spettatore un ulteriore senso di disagio e spaesamento. Insomma, In ostaggio è la conferma, se ce ne fosse ancora bisogno, che dalle fucine del cinema americano non escono soltanto i prodotti di una Hollywood tronfia e straripante, ma anche un tipo di cinema asciutto e ficcante, in grado di scuotere lo spettatore attraverso la percettibilità dell’emozione e del disagio interiore.