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Country of My
Skull, Usa, 2003,
di John Boorman, con Samuel L.Jackson, Juliette Binoche, Brendan Gleeson,
Menzi NgubsNgubane
Mentre The General, quello che potrebbe rivelarsi il
progetto più importante di John Boorman dalla seconda metà
degli anni novanta ad oggi, stenta ancora a liberarsi dalle costrizioni
di una distribuzione indegna (sconosciuto al circuito italiano dalla
data duscita, il biopic irlandese del 98 ha dovuto finora
accontentarsi di un inserimento nei palinsesti della pay-tv nazionale),
il regista inglese conferma la sua crescente consacrazione alle tematiche
sociali e il suo non indifferente interesse per le strategie politiche
neglette, consegnando alla luce unultima opera di non facile accostamento
più che altro per la difficoltà di identificazione
dei propositi diegetici e per linconsistenza sagomale favorita
dallo spersonalizzante succedersi di sfumate e cangianti direttive formali
tiranneggianti il lungometraggio sin dalle prime battute.
Dallesterno, dunque, In My Country si presenta
sul tracciato boormaniano come ultima tappa di un itinerario autoriale
sempre più vacillante tra limperfetto e solitario sviluppo
di un anziano Maestro depositario di una purezza artistica tanto sottile
quanto sfuggente e il dignitoso ma fragile avamposto di un onesto (per
etica e sensibilità filmica) cineasta itinerante in cerca di
una focalizzazione poetica fin troppo latente. Alla prima ipotesi gli
esiti di In My Country concedono le qualità
di una regia limpida, sobria ed essenziale, metabolizzazione di una
conoscenza filmica ragguardevole (sarebbe ingiusto non sottolineare
il sempre attivo interesse dellautore per levolversi tecnico
cinematografico, da anni attestato dalla sua supervisione per le pubblicazioni
saggistiche della testata accademica "Projections"). La seconda
supposizione è purtroppo avvalorata da buon parte dei materiali
rimanenti, ad iniziare da una sceneggiatura palesemente indecisa riguardo
ai percorsi narrativi da privilegiare.
Fomentato da un illuminante viaggio del regista nei territori del Sud
Africa, il film intreccia le vicende di due giornalisti in prima linea
incaricati di certificare il lavoro del Trc, la Commissione per la Verità
e la Riconciliazione, istituita nel 1995 da Nelson Mandela per accertare
le violazioni, e le rispettive responsabilità, perpetrate ai
danni del popolo africano di colore attraverso quei crimini contro lumanità
che animarono la stagione dellapartheid. Entrambi emotivamente
coinvolti dalle ragioni del processo lui, Langston Whitfield
(Samuel L. Jackson) reporter afro-americano del Washington Post; lei,
Anna Malan (Juliette Binoche), poetessa afrikaner bianca, cronachista
per unemittente radiofonica i due giornalisti, al primo
incontro, non trattengono le rispettive diversità dopinione
sui poteri fondamentali della Commissione (incaricata di concedere lamnistia
agli imputati rei confessi degli abusi e delle violenze compiute), predisponendo
le basi di uno scontro psicologico educativo e conoscitivo, decifrabile
embrione della passione romantica a cui i due protagonisti infine capitoleranno.
Nellannodare questepisodio emozionale al cruciale resoconto
sociale emergente dalle udienze del Trc (a cui i protagonisti assistono
nelle regioni che fecero da sfondo agli abusi razzisti), lesposizione
di Boorman inciampa, di pari passo con lo script di Ann Peacock, tratto
dal libro "Country of My Skull" di Antjie Krog, in smagliature
pregiudicanti, imprecisa sul tono con cui caratterizzare la drammaticità
delle deposizioni in aula dove il resoconto delle vittime è
continuamente privato della giusta incisività da una scrittura
tutta mezzi toni e limportanza della componente sentimentale
vanificata in un trattamento incolore. Non di rado poi lo slittamento
verso cliché narrativi schematizzanti contribuisce a squalificare
quel tratto di grande disinvoltura stilistica fortemente radicato nelle
precedenti opere del cineasta. Assolutamente impropria, in questo senso,
la costruzione di stampo serial-thriller regolante lintervista
di Whitfield al Colonnello De Jager (un Brendan Gleeson che rasenta
il caricaturale), un segmento distribuito a singhiozzo lungo larco
narrativo e sottolineato da un impronta musicale sinistra avulsa
dallimpronta tribale e locale del generale impasto
sonoro come a costruzione di una nervosa sottotraccia unicamente
destinata a rimanere irrisolta e inarticolata.
Disorientato, dunque, tra le impostazioni del docu-drama di denuncia
(solo accarezzato e comunque stemperato da una messa in scena addomesticata
allinoffensività), lo scandaglio inter-culturale (esaltato
soprattutto dal personaggio-mediatore Dumi, efficacemente interpretato
da Menzi Ngubane) la pista sentimentale e lo schietto ritorno ai canoni
documentaristici che decretarono le origini artistiche del regista (evidenti
nella sequenza dapertura, in cui però unesagerazione
del lavoro sulla colonna rumori non impedisce di pensare ad una volontà
manipolativa fuori luogo), Boorman manca in definitiva un bersaglio
a dire il vero poco chiaro, restituendo comunque unopera di ampia
gradevolezza fruizionale, nobilitata dal coraggio dellaccostamento
ad un capitolo cinematograficamente forse troppo trascurato. La leggerezza
del tocco (allo stesso tempo il pregio e il difetto maggiori dellopera)
è poi adeguatamente confermata dallapporto attoriale, con
Jackson validamente inserito in un ruolo off-hollywood sebbene
risulti evidente come lattore supplisca saltuariamente con collaudata
maniera alle limitazioni di sbozzo del personaggio e una Binoche
intensa che tuttavia, paradossalmente, perde aderenza proprio nellinsistita
esagerazione di quella componente che Boorman ammette esser stata decisiva
per la scelta dellattrice: La sua abilità di
apparire totalmente vulnerabile nellespressione del dolore.
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