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Useremo il nome proprio di Saverio
Costanzo solo nel titolo di questa recensione, continuando ad appellarlo
semplicemente Costanzo per non dimenticare chi è questuomo,
questo regista o meglio presunto autore, e per non dimenticare che la
genetica non è una barzelletta, e che va considerata in tutte
le sue inevitabile conseguenze. Ricordare chi è il padre di Saverio,
e di quale in-cultura sia il rappresentante oggi in Italia, non va preso
come un presupposto assurdamente vincolante, anzi: interpretatelo come
una provocazione, utile a denunciare il fallimento linguistico in cui
cade questo In memoria di me, opera seconda del regista/sceneggiatore
dopo lexploit (molto enfatizzato) di Private.
Dalle mura di unabitazione privata palestinese, occupata abusivamente
dallesercito israeliano, si passa così ai confini altrettanto
angusti del seminario, alla convivenza forzata cui sono costretti i
novizi aspiranti sacerdoti, volontari asceti della vita protagonisti
del film. Ancora una volta, dunque, un contesto preciso, una situazione
controllata, uno sviluppo/conflitto inevitabile, tematiche controverse
trattate con un sicuro piglio drammatico. Stavolta però le contraddizioni
della situazione, il travaglio spirituale cui si sottopone il protagonista
Andrea, la ricerca di una verità interiore per sopportare, con
indifferenza, il nulla della vita e delle immagini, vengono snocciolate
dal film in una serie di dialoghi a tratti vibranti e molto più
spesso poco convincenti, supportati da un tono generale serioso più
che serio, che pare costringere gli attori a recitare più del
dovuto e a trasformare di conseguenza il film, in alcuni momenti, in
una semi-farsa. Azzardiamo cioè che Costanzo abbia defecato fuori
dal water stavolta, per usare termini giornalistici. Loperazione
messa in atto, con tutte le buone intenzioni da cui muove, gira a vuoto
e non colpisce proprio nelle sue aspirazioni più nobili, vale
a dire nel voler raccontare la sconfitta della dimensione pubblica dellindividuo,
disposto a qualsiasi forma di rinuncia pur di sottrarsi al confronto
con il fuori (e quindi con il dentro). Il protagonista Andrea pare allora
votato a non riuscire da subito, troppo attento agli altri e ai loro
problemi, a quel di fuori che non viene mai inquadrato (nulla di nuovo:
ricordate lultimo Crialese?), se non attraverso i simboli delle
navi in partenza dal porto di Venezia e dei finali fuochi dartificio
- un protagonista poco interessato a scavare dentro di sé, a
controllare le proprie emozioni per riuscire nellimpresa e divenire
sacerdote. Che poi questa possa essere considerata anche una necessità
drammaturgica è altra questione: Andrea guarda, analizza, giudica
(come gli rimproverano i compagni novizi), cerca le risposte negli altri,
si scopre incapace di amare. E le questioni morali ed esistenziali del
film sono false, appiccicate in bocca ad Andrea e ai suoi due compagni
ribelli, entrambi decisi a fuggire perché incapaci di obbligare
la propria coscienza: falsi problemi di libertà e di amore, posti
ed adattati malamente ad un contesto come quello seminariale e ad una
scelta di fede che molto più spesso si risolve in accettazione
incondizionata, assorbimento di tutte le contraddizioni che una radicale
messa in discussione del libero arbitrio come questa comporta. Per questo
motivo il film di Costanzo non racconta nulla di nuovo, né un
sentimento né un problema vero: come direbbe Slavoj Zizek, il
noviziato non funziona perché non accetta la contraddizione interna,
come invece riesce a fare molto bene il capitalismo o la post-politica
attuale. In questo senso, la religione cattolica risulta moderna e non
contemporanea, ha ancora cioè bisogno di mascherasi da verità
per convincere il pubblico un discorso intelligente ed appropriato
questo, che tuttavia inghiotte il resto del film, purtroppo, lasciando
a galla solo la tecnica eccessiva degli attori e denunciando così
lo scarso sentimento della messa in scena.
La verità morta della Chiesa, costretta in gerarchie e giochi
di potere (un discorso vecchio che più vecchio non si può!),
appare allora equivalente, parallela, alla verità morta che il
film finisce per raccontare, costretto da una narrazione secca e fin
troppo rigida a volgere verso un più che prevedibile finale.
Allora nella stessa misura il film, alla fine, appare supponente come
il suo protagonista, accusato di pretendere di conoscere scientificamente
la verità più che cercare di incarnarla. Peccato che la
speranza di Costanzo, e cioè spingere al limite le critiche dei
compagni di Andrea per raccontare la saggezza e la lungimiranza del
suo protagonista (e quindi lalternativa scelta finale
),
risulti un tuttuno con la diegesi piuttosto che restarne indipendente
e poterla giudicare, dallalto in basso, scientificamente. Ecco
allora, sotto mentite spoglie, il Costanzo che temevamo dincontrare:
mistificatore e presuntuoso, scontato ed inessenziale, il risvolto fintamente
intellettuale di quella cultura popolare che il Costanzo laltro
incarna con molta più coerenza e determinazione. Purtroppo.
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