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Certo non ha giovato a The
illusionist essere arrivato sui nostri schermi poco dopo The
prestige, ma a conti fatti i due film differiscono così tanto
luno dallaltro che la vicinanza con lo straordinario film
di Nolan non costituisce un vero e proprio handicap, magari il contrario.
Diverso è il respiro della narrazione, nel caso del lavoro del
quasi esordiente Neil Burger: infatti stiamo parlando di un lungometraggio
tratto da un racconto (Eisenheim the illusionist, con cui
lautore, Steven Milhauser, ha vinto un Pulitzer), faticosamente
adattato per la celluloide ampliando parti e personaggi che nella storia
originale erano appena accennati (è il caso di Paul Giamatti).
Diverso è il tono della storia stessa: sospesa continuamente
tra melodramma e giallo datmosfera, anche se a ben vedere il giallo
come stilema e come intenzione - avrà vita breve e travagliata,
a beneficio finale del sapore melò della vicenda. Ci sono due
antagonisti anche qui, come in The prestige,
ma non potrebbero essere più antitetici, ben diversamente dalle
intelligenti simmetrie piene di suggerimenti metaforici di Jackman e
Bale; qui cè leroe, Eisenheim, un redivivo Edward
Norton così calato nei panni del mago da aver celato - e reso
misterioso- perfino a noi spettatori quel talento attoriale che ci aveva
fatto sperare a suo tempo in un nuovo prodigio (ma cosa gli è
successo, ad esser proprio sinceri, dopo Fight
club?); un eroe che dedica la sua intera vita alle arti della magia
e dellillusionismo, individuo umbratile, un po obliquo,
dallo sguardo sempre offuscato da qualche remoto tormento: un vero clichè
post-romantico, insomma. Soprattutto perché scompare da ragazzo
dalla Vienna di fine ottocento in seguito ad una terribile delusione
amorosa, e ci ricompare ventanni dopo, mago di incredibile bravura
e magneticissima personalità, in tempo per incontrare di nuovo
la sua fiamma giovanile e scoprire che se allora questo matrimonio non
saveva da fare, adesso è perfino impensabile lidea
di farci due chiacchiere per strada: lui, benchè maestro nelle
arti arcane, è di estrazione popolare e lei, la bellissima e
un po languida Sophie (Jessica Biel, un po forzata magari
in quel sembiante ottocentesco, ma sempre gradevole a vedersi) da contessa
che era nel frattempo è diventata nientemeno che la promessa
sposa - suo malgrado- del principe ereditario Leopold. Il quale ha le
fattezze di Rufus Sewell, tra laltro perfettamente calzanti: è
un uomo forte e autoritario, arrogante e razionalista, non crede nella
magia e ha un debole per il potere, e soprattutto non tollera che qualcuno
possa tentare di soffiargli ciò che ritiene suo di diritto. In
mezzo, lafflitto e arguto ispettore capo Uhl (Paul Giamatti, una
volta tanto non impegnato nel classico ruolo della brava persona tutto
cuore e un po sfigato), che si barcamena dolorosamente tra un
dover essere come puro strumento del potere politico e il voler essere
investigatore a pieno titolo e ricercare la verità, costi quello
che costi. Leopold userà larma della politica, Eisenheim
quella dellillusione, in palio ci sarà, appunto, lavvenenza
delle labbra di Sophie, e il suo cuore.
Ma benchè il titolo del film sia esplicito in tal senso, di illusionismo
in questa storia ce nè davvero poco. Al contrario del lavoro
di Nolan, non cè alcuna trasparenza nel mestiere di Eisenheim:
quello che gli vediamo fare sono inspiegabili magie che non sfigurerebbero
nel repertorio di Gandalf, né la sceneggiatura ci viene incontro
- se non in qualche sporadico istante nel finale - per permetterci di
distinguere la sua figura di illusionista (magician nel
testo) da quella del vero mago (wizard), distinzione a nostro
avviso di fondamentale importanza che invece è sottesa continuamente
in The prestige. Vediamo il protagonista
compiere dei veri atti prodigiosi, totalmente inspiegabili, come la
generazione di ectoplasmi evocati dal mondo dei morti, ed altre amenità
ancor più sorprendenti, senza che il gioco del trompe loeil
vacilli per un istante, senza che mai il regista muova a nostro favore
le quinte per rivelarci il mestiere dellillusione, che è
fatta di artigianato, carpenteria, dedizione e sacrificio (e questultimo
ingrediente è anche una delle chiavi di lettura fondamentali
per apprezzare gli escapisti di Nolan e i loro drammi). A nostro avviso
questa differenza è sostanziale, perché chiude la rappresentazione
delleroe entro una caratterizzazione così forte da essere
imperscrutabile e inaccessibile: è prodigio, prima e ben oltre
che essere uomo. Ne deriva una piattezza metaforica che è riscontrabile
su tutta la scala della narrazione, tanto che la stessa tag-line del
film (niente è come sembra) lungi dallevocare
profondità e anticipare ambigui giochi prospettici finisce col
telefonare palesemente la risoluzione della trama, che dal midddle point
in poi corre inesorabilmente verso lunico finale possibile, e
a sorprendersi resta solo il povero ispettore Uhl. A noi spettatori
resta poco di cui giovarci: forse la fotografia di Dick Pope. Il "forse"
è dobbligo per chi scrive, dato che la visione del film
nella sala dellANICA di Roma è stata in buona parte rovinata
da un problema di messa a fuoco della pellicola (problema che in quella
sala sta riproponendosi sempre più spesso). A meno che non si
trattasse di uno strategico flou per disturbare la visione
del pubblico e rendere ancora più misterica la performance del
grande Eisenheim
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