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Identity,
Usa, 2003 di James Mangold, con John Cusack,
Clea Duvall, Ray Liotta, Amanda Peet
Dieci piccoli uomini, un motel isolato e uninterminabile
notte funestata dalla pioggia: tre componenti elementari e oltremodo
sfruttate si offrono ai volenterosi propositi di James Mangold per sintetizzare
(o spingere a saturazione) le evoluzioni dellintreccio occultante-a-svolte
esplicative-ridimensionanti post Singer-Shyamalan. I tre fondamentali
ingredienti in questione si amalgamano con la più ordinaria schematicità
la pioggia incontrollabile costringe i dieci sconosciuti a pernottare
nel remoto motel dando vita, nel convulso incipit, a un impasto
da thriller claustrofobico correttamente preparato. Ma le intenzioni
del regista non tardano a dichiararsi e le relazioni instaurate dai
personaggi, costretti a convivere loro malgrado, prendono il sopravvento
sulle venature soft-gore che pian piano si fanno strada. La costrizione
atmosferica e la forzata prigionia imposta dal motel, obbligano gli
albergatori a sopportarsi nonostante le evidenti differenze caratteriali,
forzandoli a una tregua di collaborazione in vista degli inspiegabili
eventi che mirano, con fredda logica, a decimarli. Massacrata la prima
vittima, lattrice sullorlo del fallimento Caroline Suzanne
(Rebecca DeMornay) e con la falce di un killer instanabile pendente
sulla testa di ognuno, le variegate personalità che popolano
lalbergo si scrutano, si spiano, si analizzano in un balletto
di sospetti e risentimenti, svelando progressivamente le loro affinità
e rispettive ambiguità. Si delinea uno scenario tuttaltro
che casuale. E non serve approdare alla sconvolgente verità di
coincidenze impossibili (tutti nati nello stesso giorno, ciascuno con
il nome che richiama uno stato americano) per accertare che nessuno
è lì per caso. Linaccettabilità di concomitanze
inverosimili è infatti chiarita dal reciproco influsso generato
tra un recluso e laltro, dalla naturale predisposizione di ciascun
protagonista chiave a scoprirsi perfetta e complementare antitesi-purificatrice
di chi gli è vicino: Paris (Amanda Peet), squillo in cerca di
una nuova vita, contrasta le angherie di Lou (William Lee Scott ) nei
confronti della giovane moglie Ginny (Clea Duvall) e si impone allintolleranza
del gestore Larry (John Hawkes) per poi schierarsi a suo favore contro
chi lo additerà come principale indiziato, o Rhodes (Ray Liotta),
che sopravvive al confronto con il compagno di cella Robert (Jacke Busey)
ma non a quello con Ed (John Cusack) che ha nel suo passato le armi
per smascherarlo. Tutte le contraddizioni e le comprensioni, insomma,
di ununica persona, che attende, in un altrove vicinissimo, di
essere salvato.
Non è solo questultima svolta narrativa, come la successiva
forse più intuibile e maggiormente somministrata durante
larco del lungometraggio o il continuo scivolare da un
genere allaltro a rendere Identità, quinto
film di Mangold, un oggetto inconsueto. La maggiore peculiarità
è sicuramente quella narrativa, sospinta da una volontà
di originalità e creatività che ha portato lautore
a cimentarsi in un notevole esercizio di montaggio. Sin dalle prime
mosse, con il pesante approccio analessico esterno, il criterio si rivela
opportuno nella traduzione filmica della particolare sceneggiatura di
Michael Cooney (a cui mette mano, in fase di revisione, anche il regista),
restituendo, nei flashback di introduzione ai personaggi, una valida
resa della frammentaria psiche generatrice a monte degli eventi. Un
editing convulso e intrigante che nel suo disordine ragionato si affianca
ad un libero flusso di coscienza in grado di duplicare la volontà
di messa in scena: Mangold, in particolare nel prologo, sembrerebbe
lasciare al disturbato condannato a morte il diritto dorganizzazione
dellintreccio, con tutte le libertà e le confusioni di
chi, per lappunto, inventa sul momento. Si imposta quindi un trattamento
a due istanze narranti, dichiarato e ancor più esagerato dal
primo colpo di scena chiarificatore che, insieme al segmento finale,
delega al film quellormai irrinunciabile architettura ingannevole
e sconvolgitrice, alimentata con sapienza dal potere selettivo del montaggio
alternato. A ben guardare, comunque, limpianto a svelare mangoldiano
guadagna maggiore nobiltà rispetto a numerose opere recenti,
se non altro per loriginalità nello snodo del primo climax,
che senza dover ricorrere a pesanti mistificazioni o sottesi raggiri
stupisce con naturalezza nella semplice dimostrazione di un insolito
punto dincontro tra due storie non necessariamente debitrici luna
allaltra. E altrettanto vero però che entrambe le
storie non godono dellautonomia necessaria per interessare fino
in fondo singolarmente. Il problema è sicuramente da ascrivere
soprattutto alle sequenze legali incentrate sul destino
dello psicolabile condannato a morte; in particolare questultimo,
nellinterpretazione inefficace di Pruitt Taylor Vince (che Mangold
recupera dagli esordi di Dollys Restaurant),
non trova il giusto dimensionamento allinterno del testo degenerando
nel macchiettistico nonostante la rilevanza del ruolo. Similmente, il
montage chiarificatore nel finale alla Omen, snatura
la pellicola di quelle coraggiose qualità accumulate durante
lintricato sviluppo della vicenda, qualità che attestano
in qualche modo lo spirito indie ancora vivo nellautore. A minare
profondamente lintegrità narrativa è comunque limbastitura
del materiale umano, importantissimo ai fini del soggetto e solitamente
punto di forza nelle precedenti esperienze di Mangold. Tutti dal respiro
corto, alcuni addirittura meramente sbozzati, i protagonisti animano
il motel incapaci di un soddisfacente sviluppo psicologico (inadeguati
anche di fronte alla plausibile identificazione simbolica con le pulsioni
dellassassino). Nonostante il fornito cast artistico, i protagonisti
gravitano alternativamente nei pressi dellunidimensionale e del
sopra le righe.
Tutto considerato, comunque, lultima prova di Mangold che
trova ottimi apporti nellattenta musica di Alan Silvestri e nella
fondamentale fotografia notturna di Phedon Papamichael è
da apprezzare per la voglia di osare (considerando lambito mainstream
di cui fa parte) e nello stesso tempo di intrattenere con intelligenza,
arrischiandosi nella promulgazione di un nuovo e allettante sguardo
al thriller psicologico, con il coraggio di evitare la confezione e
con tutti gli inevitabili difetti e le irrisolutezze del caso. Dopo
lintossicante leggerezza di Kate & Leopold,
Identità è una boccata daria che
lascia ben sperare riguardo al futuro di Mangold, la cui migliore prova
in ambito hollywoodiano e dintorni rimane in ogni caso Cop Land.
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