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Direktøren
for det hele, Danimarca/Svezia 2006
di Lars Von Trier con Jens Albinus, Peter gantzler, Iben Hjejle,
Fridrik Thor Fridriksson
Siano avvertiti coloro che non conoscono il regista danese, che una
commedia sceneggiata e diretta dal creatore di Dogma 95 non è
una commedia qualsiasi, non poteva esserlo. Di tradizionale abbiamo
solo il soggetto, questidea di un microcosmo sociale costituito
da una piccola software house danese mandata avanti da un capo fittizio,
creato ad arte dal vero proprietario, il quale non se lè
mai sentita di fare il leader, preferendo mimetizzarsi tra i suoi dipendenti
come uno di loro, fino al momento in cui deve trovarne uno di punto
in bianco, di principale, perché lazienda finlandese al
quale sta svendendo tutta la baracca pretende di trattare con il grande
capo in persona. Fino ad un certo punto il motore gira in maniera abbastanza
conforme, secondo il modello della commedia degli equivoci, più
o meno, con questo attore fallito pagato per impersonare per una settimana
il fantomatico presidente dazienda, e che si ritrova a doversi
relazionare con i membri della sua società, parlando di cose
che non conosce minimamente (informatica) e soprattutto facendo finta
di essere qualcuno che è sempre e solo esistito per i suoi dipendenti
solamente attraverso le e-mail che il vero artefice di tutto ha sempre
spedito, senza minimamente curarsi delle conseguenze di quanto scriveva.
Von Trier si riaggancia ad una forma fondamentalmente teatrale della
commedia: sono teatrali gli spazi, la dinamica dei dialoghi e delle
azioni, nonché luso della macchina da presa, le cui decisioni
di composizione delle inquadrature, assieme a quella del filtraggio
sonoro, sono spartite tra regista e computer, secondo il sistema da
lui brevettato chiamato Automavision, che impone un capovolgimento del
rapporto tra fotografia e recitazione: è un computer che, sapientemente
programmato, calcola panoramiche, zoom e tagli di inquadratura, costringendo
la performance attoriale a un ruolo di secondo piano, letteralmente.
Il risultato è un montaggio a salti e una serie di tagli che
spesso prediligono spazi vuoti intorno agli attori, a volte incastrando
questi ultimi a bordo schermo, a volte lasciandoli completamente fuori
campo. Leffetto è straniante ma funzionale, certo aiuta
da questo punto di vista la natura del testo, in cui sono appunto i
dialoghi - dunque il sonoro - a fornire lo schema tracciante della vicenda,
e in fondo questo Automavision restituisce un senso un po ondivago
ed erratico alla nostra visione di spettatori, quel modo di guardare
ad uno spettacolo (appunto, tipicamente teatrale) un po vagabondo,
non troppo irreggimentato dal diktat di una regia cinematografica, che
impone allocchio anche il più piccolo detour.
Ma in realtà il vero tocco Von Trier è ben lungi dallessere
un brevetto tecnico. La battuta sagace che lui utilizza anche con una
certa generosità è la copertura confettata che maschera
lacido a cui ci ha abituati sin dal 1996, ed è un acido
che dispensa ed irrora su tutto e tutti, anche stavolta. Sulle meccaniche
del potere e degli affetti, così inestricabilmente e perversamente
intrecciati, che danno forma a questa pungente metafora della trascendenza
dellautorità, irrintracciabile ogni volta che si cerchi
un responsabile di atti moralmente deprecabili, perché altro
non è, il fantoccio del grande capo, se non questo: un burattino
di comodo che permette a chi lo usa di mettersi al riparo dalle conseguenze
della disumanità delle proprie azioni di leader, conservando
sempre un ascendente affettivo sui dipendenti tartassati. Acido proprio
su questi ultimi, dipinti prima di tutto come un mucchio di personalità
caratteriali al limite del grottesco, poi come complici stessi della
grande farsa ai loro danni, ben disposti a relegare nella dimensione
del trascendente loggetto del loro odio, purchè sia fatta
salva la finzione di sentimentalismo che permette di tenere in piedi
limpianto affettivo - e produttivo - dellazienda.
E acido sulla stessa commedia come genere, nel momento stesso in cui
viene usata e ab-usata: perchè Von Trier la diprezza, è
ben evidente, sin dal palese disinteresse verso macroscopici errori
di edizione, a bella posta lasciati in pasto al pubblico perché
si renda conto che non è serio ciò che si sta facendo,
anche se lo si sta facendo bene. No, niente di serio: è una commedia,
ci dice il regista in molteplici occasioni; in apertura, quando compare
in cima ad un dolly riflesso in un vetro; con una voce fuori campo fastidiosa
e divertita (e divertita perché fastidiosa) e soprattutto nel
finale, che si avvita e si contorce, quando il povero Kristoffer, lattore
che voleva solo essere attore, e si ritrova a dover fare il capo, non
più a recitarlo, perché il capo vero è in effetti
contumace. In una sorta di cerebralistica meta-riflessione sullopportunità
di recitare - e nello specifico: di recitare una commedia- il guitto
si inerpica in uno sproloquio melensissimo e senza senso, che però
sigilla un lieto fine della storia, facendo tutti contenti, al grido
di: questo non è un addio, bensì un arrivederci. Parole
da sitcom, come lo stesso Kristoffer aveva detto precedentemente, indegne
di una vera sceneggiatura. Eppure Von Trier ce le propina, sornione,
e ci avverte con lultima sua uscita, prima dei titoli di coda:
attenti: se questo film vi è piaciuto, allora ve lo siete proprio
meritato. Lultima stilla di raffinato disprezzo, anche stavolta,
è per il suo pubblico, per quelli che pensano che è sempre
il momento giusto, per una commedia.
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