|
||||||||||||||||||
id.,
Usa, 2001 di Robert Altman, con Maggie Smith, Kristin Scott Thomas, Stephen Fry, Clive Owen, Emily Watson Due mondi paralleli somiglianti nei meccanismi di potere che li alimentano, due aggregazioni decadenti seppellite in un'ambientazione vittoriana, quella, per intenderci, tanto cara allo sguardo polveroso di James Ivory; un epilogo alla Agatha Christie con annesso omicidio (di gruppo?) che fa brulicare ancora di più un formicaio di figli segreti, moventi legittimi e relazioni amorose clandestine. Questo il materiale manipolato e rimasticato da Altman che, come in un gioco di prestigio, restituisce ad un genere vetusto uno sprazzo di rinnovato vigore, abbattendone i punti fermi e frullandone gli assunti ammuffiti. Ci riesce semplicemente attingendo al nettare del suo repertorio registico, replicando con disinvolta autorialità la descrizione di un intreccio di microstorie, di un caos polifonico di fisionomie fugaci a cui Altman sottrae gradualmente l'iniziale evanescenza. L'ammirevole, fluida padronanza dei movimenti di macchina lascia allo spettatore ampi margini di libertà e di spiragli attraverso i quali entrare ed uscire dall'universo corale raffigurato; ma ciò avviene in un secondo tempo, dopo che per lunghi istanti il tipico straniamento attuato da Altman nell'oasi intermedia tra i codici visivi e quelli sonori impedisce la focalizzazione di un evento, di una stanza, di un arredo e soprattutto di un personaggio specifico. Altman detesta da sempre la ricezione addomesticata del testo filmico e pretende una partecipazione attiva, una sorta di collaborazione da parte dello spettatore che nelle sequenze iniziali viene tempestato di nomi anglofoni sussurrati durante le presentazioni degli oltre trenta ospiti della magione di Sir William Mc Curdle. I domestici per comodità preferiscono chiamarsi come i padroni e la distinzione tra gli individui è resa ancora più problematica e confusa dal rumore della pioggia, dall'uggiosità della campagna inglese che dissimula i volti e le onorificenze tra cappelli ed impermeabili fradici. È una sfida quella di Altman: o si decide di concentrarsi su quei corpi inseguiti da una macchina da presa garbata ma impicciona o si rimane spiazzati, indispettiti perché esclusi dal flusso vivace degli scambi sociali tra le due entità umane, servitù e aristocrazia appunto, che deambulano nello stesso spazio. Anche perché il regista americano si guarda bene dall'indugiare sulla carica retorica delle parole, ingrediente rinfrancante per palati pigri, e preferisce lasciare i personaggi ondeggiare in un naufragio verbale ben attento che nessuno abbandoni lo status di comparsa per quello di protagonista. Dirige perciò i suoi attori, a cui non concede mai lo straccio di una scena madre, verso le zone più democratiche di una recitazione misurata che si rapporta coerentemente con la tendenza centrifuga dell'organismo filmico nella sua interezza. Nemmeno l'omicidio, evento ovviamente traumatico per definizione, sfugge a questo "understatement" se si pensa a come viene soffocato dalle frenesie collaterali, dal surriscaldamento del motore centrale del film: le incandescenti peripezie della servitù e, in subordine, della moglie di McCurdle, intorno alla figura dello stesso Lord ucciso. Non per niente a raccogliere indizi ecco apparire un investigatore svagato e impalpabile che, malgrado la mole, ha la consistenza narrativa di una bolla di sapone che esplode davanti al rigurgito degli accadimenti passati. William McCurdle è l'untore che ha mischiato il sangue del ceto alto con quello del ceto basso tanto da ergersi ad autentico canale di comunicazione tra i due mondi (nonché strascico godereccio del timido e accomodante Richard Gere-Doctor T): il suo seme ha imperversato nelle trombe di falloppio delle numerose domestiche ingravidate, trombe ostruite simbolicamente "a posteriori" dal riserbo di una maternità inconfessabile e sofferta (come nel caso di Helen Mirren/Mrs Wilson) e che ora la sua morte ha definitivamente sbloccato. La conseguenza assume tuttavia i contorni di un'apocalisse che causa la dispersione forse fatale di un mondo intrappolato nella decadenza ma ancora in possesso di germi vitali in procinto, da quel momento in poi, di spegnersi del tutto. Un'apocalisse molto più smorzata nei toni rispetto a quelle tuonanti di Nashville e di America Oggi - l'uccisione durante il concerto nel primo caso e il terremoto quale suggello di un film pervaso da un senso di morte nel secondo - ma non meno deflagrante negli effetti. Anche Gosford Park, nelle sue conclusioni, si rivela essere l'ennesimo ritratto postumo di un mondo che annuncia di essere defunto solo dopo l'ultimo sussulto vitale, l'ultimo sigillo che scuote i nervi di un organismo già da tempo in decomposizione ma a cui mancava il rimbombo sordo del timbro sul certificato ufficiale di morte. |