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the Brothers Grimm,
Repubblica Ceca / USA, 2005
di Terry Gilliam, con Matt Damon, Heath Ledger, Peter
Stormare, Lena Headey, Jonathan Pryce
Sebbene poter godere di una nuova prova di Terry Gilliam rappresenti
un evento di primordine - meritorio già di per sé
di particolare attenzione e capace semplicemente in essere di appagare
unattesa che lincresciosa debacle di The
Man Who Killed Don Quixote ha contribuito ad accrescere - di
fronte ad un risultato come quello di The Brothers Grimm
ci si ritrova a costretti a stemperare istintivamente lentusiasmo,
a riconsiderare obiettivamente la natura di questo agognato rientro
sotto il peso schiacciante delle passate elaborazioni cinematografiche
dellex-Monty Python. E a verificare, almeno estemporaneamente,
quanto il nuovo lungometraggio targato Miramax, tra le inevitabile fenditure
di un côté da confezione decisamente troppo hollywoodiano
e solo a sprazzi "gilliamiano", lasci trapelare i sintomi
di una sconfitta anziché di una vittoriosa rivalsa. Che magari
nemmeno ci si aspettava di riscontrare, o perlomeno non a fronte delle
inconciliabili incongruenze tra regista e industria palesate in Lost
In La Mancha, ma la cui quasi totale assenza certo non può
essere ignorata.
Prediligendo ancora una volta un racconto scomponibile - e in questo
senso laver posato la propria attenzione sulla "favola delle
favole" sembrava poter stimolare la prolifica narrazione dellautore
di Brazil in un trattamento dellintreccio tipicamente
accattivante - Gilliam denuncia un esaurimento della sua vena eversiva,
del suo tratto sciolto e personalissimo, della febbrile mobilità
della scrittura cinematografica componendo una prova filmica pilotata,
seppure agile, dignitosissima e in definitiva ancora vibrante di una
concezione scenografica spiccatamente teatrale; un affresco visivo che
però linconsueta monotonia del materiale umano, delle dinamiche
drammaturgiche troppo definite e predestinate (un elemento, va detto,
che ai fini della poetica del regista rappresenta un ostacolo limitante
anziché un fattore di compiutezza e di pregio) costringono alla
parvenza di una cornice impolverata, senza pulsioni artistiche da contenere
o da cui farsi sopraffare. Scompare quellimpronta caricaturale
di scuola wellesiana sempre pronta a tradurre la tensione onirica di
un immaginario sconvolto e sconvolgente, palpitante nelle precedenti
opere. Il senso di vertigine visiva e testuale è annichilito
da un framing sorprendentemente innocuo nonostante lindiscutibile
respiro grottesco infuso ad alcuni segmenti, così da perdere
anche quella sintonia destabilizzante tra schizofrenia narrativa e follia
estetica. Mentre quello sguardo insaziabile, fatto di frammenti visivi
addensati a strutturare in accumulo psicologie in rotta di collisione
restituite in transfert al fruitore dalle altezze impressionanti di
un Es in forma di plongee, si sacrifica ad unomologante
spettacolarità di maniera.
Ma è dobbligo un minimo di dietrologia. E dobbligo
ricordare una produzione non meno sofferta di quella del precedente,
incompiuto progetto. E dobbligo considerare quanto immensamente
deve aver influito sul risultato finale il licenziamento in corso dopera
del direttore della fotografia Nicola Pecorini, giudicato dal duo produttivo
Weinstein troppo lento in unepoca dove anche larte ha le
sue scadenze; dobbligo riflettere sullimpossibilità
da parte del cineasta di affidare il principale ruolo femminile alla
prima scelta Samantha Morton. Non meno categorico, ragionando sul film
ultimato, è inoltre considerare quanto i pregi capaci di maggior
distinzione nel film meritino particolare evidenziazione proprio alla
luce di tali censure autoriali - tra le altre 9.997 decisioni
sulle quali, a dir dei Weinstein, Gilliam avrebbe avuto piena libertà.
Evidenziare quanto il rapporto con il sostituto alle luci Newton Thomas
Sigel abbia comunque dato i suoi buoni frutti, regalando al film uno
degli aspetti visivi più importanti e convincenti (anche se sporcato
da un uso del CGI non rifinito e inadatto allimmaginario del regista
americano) e quanto laspra performance ricavata dallimposta
Lena Headey abbia evitato ulteriori impacci alla pellicola, favorendo
inoltre un necessario bilanciamento alla troppa impostazione dei protagonisti
Damon e Ledger. Infine, da evidenziare anche la riconferma della grande
comprensione del cineasta per i bisogni musicali del girato, tradotta
stavolta nella scelta di un collaboratore - il promettente newcomer
Dario Marianelli - capace, con uno score veramente convincente, di incentivare
lo spirito fiabesco oltre che di garantire continuità alleccellente
lavoro assicurato in passato al regista dal compianto Michael Kamen.
Se dunque, come si diceva, è impossibile non parlare di sconfitta,
o di sopraffazione artistica, rimane lambivalenza di cui si fregia
un simile giudizio allinterno delle parti: tanto quanto la rentrée
a sette anni di distanza da Paura e Delirio a Las Vegas
di Gilliam ha consegnato ad Hollywood un regista non più Autore
perché sopraffatto dallindustria, così lindustria
esce sconfitta da un autore che, nonostante tutto, stavolta non si è
arreso.
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