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Un periodo culturale paradigmatico
e contraddittorio come gli anni 60 reso inerme ed irritante proprio
attraverso la rappresentazione di alcuni dei suoi maggiori esponenti:
questa è in sintesi lanalisi di Factory Girl,
opera del tutto superficiale che banalizza sia gli argomenti che tratta
che le psicologie dei personaggi che mette in scena.
La storia è quella della straricca e vanesia Edie Sedgwick, musa
ispiratrice del vampiro Andy Warhol che in pochi anni la
fece diventare suo malgrado licona vivente del suo discorso di
svuotamento delle forme più riconoscibili della cultura pop americana.
Una volta usata, la donna-merce (oggetto nel senso più ampio
del termine?) viene appunto gettata a se stessa, e se per caso a questo
voltafaccia ci si aggiunge uninfanzia molto travagliata che si
nascondeva dietro la parvenza perbenista della ricchezza, ecco che la
frittata è fatta.
La superficilità/sciatteria linguistica appena adoperata per
riassumere la trama di Factory Girl è volutamente
coerente con quella cinematografica con cui Hickenlooper ha realizzato
il film. Possibile che con un simile materiale umano e personalità
talmente sfaccettate e complesse come quelle della Sedgwick e Warhol
non sia riuscito a tirar fuori neppure una scena in cui si potesse respirare
un refolo di spessore? Si, è tragicamente possibile. La pellicola
è un susseguirsi di scene luccicanti quanto inconsistenti, forse
costruite in questo modo per raccontare anche a livello estetico il
mondo colorato della sua protagonista, ma che dimostra soltanto come,
ed anche questa è solo unipotesi, proprio di lei in realtà
il film non è riuscito a capire nulla. Ciò è abbastanza
ben documentato dal fatto che Factory Girl non ha un
centro narrativo preciso, e si muove claudicante dentro una serie di
siparietti che non portano logicamente da nessuna parte, almeno fino
allarrivo della figura di Bob Dylan (ah no! Scusate! Il
musicista di cui non viene esplicitata lidentità,
tanto non si capisce
). Da quel momento parte una minima traccia
di sceneggiatura, che sviluppa in maniera trita e francamente imbarazzante
il presunto triangolo di gelosia e sesso che si sviluppa
tra la Sedgwick, Dylan e Warhol. Se anche questa parte fosse stata raccontata
con un minimo di pathos, probabilmente sarebbe stato comunque inutile,
vista la snervante pochezza di profondità che lha preceduta.
Ma poco importa, tanto anche questa parte del film è mera rappresentazione
da cartolina.
Avete presente quando nelle pellicole si assiste a quella scena che
con montaggio accelerato e musica sparata deve raccontare con forti
ellissi temporali lascesa e lo sviluppo della storia? Di solito
vene adoperata per portare il film da un punto allaltro. Ebben,
Factory Girl sembra essere una di queste scene, ma
gonfiata a 90 minuti. Il grave problema è che tale momento non
ha una partenza e quasi neppure una fine. Rimane quindi un momento di
cinema sospeso, incerto, incomprensibile. Difficile trovarvi una spiegazione,
ancor più arduo rimanere anche minimamente interessati da un
lavoro che lascia costantemente addosso la sensazione di essere nullaltro
che un qualcosa di passaggio. Alla fine anche la troppo celebrata Sienna
Miller non ci fa di certo una bella figura, in quanto sembra molto più
intenta a confermare la sua personale icona di starlet divisa tra il
glamour ed il radical chic che a fornire uninterpretazione convincente
di una figura potenzialmente a lei indicata.
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