the Exorcism of Emily Rose

Voyeurismi luciferini
di Emanuele Boccianti

 
  id., USA, 2005
di Scott Derrickson, con Laura Linney, Tom Wilkinson, Jennifer Carpenter.


Tempi duri per il cinema di paura. Con l’affastellarsi di remake di sequel  e sequel di remake, diventa sempre più arduo cimentarsi col compito di tirare fuori una storia originale, un prodotto capace di proporre nuove suggestioni per oltrepassare le barriere psicologiche del pubblico, coglierlo alla sprovvista, impedirgli che possa difendersi da quanto tenta di aggredirlo dallo schermo. L’horror è un cinema a rapida obsolescenza, su questo non sembra esserci dubbio. Si tentano quindi le strade trasversali, le ibridazioni, le contaminazioni di stile, di registro e di genere. The Exorcism of Emily Rose è il tentativo di creare un “legal horror” per così dire, e l’idea che anima il lavoro di Scott Derrickson (uno dei tanti mestieranti di questo sottobosco cinematografico, ma che ha anche collaborato alla sceneggiatura del penultimo film di Wenders) è proprio quella di spostare il punto di vista del racconto di una possessione demoniaca oltre l’accaduto, fin dentro l’aula di un tribunale.
Un prete è accusato di aver disatteso alle necessarie cure mediche che una ragazza sembrava necessitare, almeno secondo la medicina ufficiale, perché la sua convinzione è che si trattasse non di un male fisico, ma di un male dell’anima. Un demonio che si era impossessato di lei. Questione scottante da portare in un’aula di tribunale, in cui per definizione possono entrare solo i fatti, solo ciò che è documento, referto, testimonianza. L’avvocato che difende il prete decide, non senza difficoltà, di seguire una linea quantomeno audace: il prete non deve essere ritenuto responsabile della morte della ragazza, per il semplice motivo che tanto lei quanto la famiglia stessa erano convinti che una possessione fosse realmente avvenuta. E l’avevano messa quindi nelle mani di un ministro di Dio. Non una questione di farmaci, ma di esorcismi. Che purtroppo non sempre riescono. Problema: può entrare la fede in un processo? Si può parlare di ciò che non è tangibile, di ciò che può essere ritenuto reale solo in virtù di una fede, fede che si può avere o meno? Si può giudicare un uomo in base alle leggi degli uomini, anche se tali leggi non prevedono se non eventi ordinari, materiali?
Laddove cento altri film si concludono appena dopo lo showdown finale, tra le macerie reali e psicologiche create dall’evento traumatico, The Exorcism of Emily Rose comincia proprio da lì, dall’anticlimax post-dramma. Nella casa c’è solo morte e sofferenza. Un inizio lento, dolente e solenne. Insieme all’avvocato Erin Bruner (una Laura Linney più perplessa che commossa) dobbiamo ripercorrere a ritroso ciò che è già successo, camminare in mezzo a quelle macerie, ricostruire i fatti, solo a partire dalle testimonianze. Il percorso si snoda attraverso il mistero e il dubbio, che dovrebbe essere il vero protagonista della storia.
Se però è vero che questo film si presenta con una veste nuova, un punto di vista “shiftato” rispetto a molti film simili, è anche vero che lassù da qualche parte, alla produzione o alla regia, devono comunque aver sentito il bisogno di tutelarsi di fronte ai rischi del botteghino. Infilando perciò in un lavoro che poteva vantare a tutta prima credenziali di storia liminale, ibrida, “sfumata”, note e temi richiamanti la più canonica delle storie di esorcismi. A ben vedere, i migliori momenti (peraltro non numerosi) della pellicola sono proprio quelli in cui il regista fa piazza pulita del punto di vista del giurato costretto entro i limiti della sua ignoranza (cosa ha ucciso la povera Emily, un prete incosciente o il diavolo?) e quindi chiamato suo malgrado a fare una scelta di coscienza, e si prende tutta la libertà e il divertimento che vuole per cercare di farci balzare sulla sedia. Così, finalmente, sullo schermo si snoda tutto o quasi il repertorio del caso: oggetti che si muovono da soli, ragazze in preda a scioccanti convulsioni, corpi straziati, presenze oscure e fantasmatiche. Interessante la giovane Jennifer Carpenter, soprattutto nelle sue performance più specificamente fisiche: il suo corpo si alterna con destrezza tra i due estremi della assoluta rigidità - scatti convulsi, membra che si contorcono, posizioni assolutamente innaturali e impressionanti - e del languore più malato e devitalizzato. La stessa Erin Bruner, che difende il prete accusato di omicidio colposo (un Tom Wilkinson asciutto e amaro come sa esserlo, forse qui appena un filo troppo monocorde) è oggetto delle visite delle Forze Oscure, tanto che il suo assistito la mette in guardia: c’è una battaglia tra forze sovrumane che ruota intorno al processo, dice il sacerdote, e questa frase è detta con una solennità che per un attimo fa presagire improvvise svolte narrative stile Constantine. Ma poi nessuna battaglia ha luogo, i demoni si limitano a fermare l’orologio alle tre di notte, a fare un po’ di corrente, a far finire sotto la macchina un medico, personaggio assolutamente inutile i cui unici due scopi sono quelli di fornire un nastro che documenti il rito avvenuto, e morire in maniera fastidiosamente banale.
L’Esorcismo di Emily Rose tenta in ultima analisi di tenere i piedi in due staffe, solleticando platee più fini e sofisticate usando un soggetto di genere per mettere in piedi un film che sia un caso di coscienza civile, prima di tutto; ma contemporaneamente gratificando tutti quelli che al brivido preconfezionato non vogliono rinunciare andando a vedere un film con la parola “esorcismo” nel titolo. Risultato: un compromesso più esoso degli estremi che tenta di mediare, dal momento che in quanto horror manca il bersaglio, inondandoci di stancanti dejà vu e non regalando nulla che possa minimamente ampliare la nostra esperienza di possessioni cinematografiche; d’altra parte, in quanto riflessione sul dilemma morale-legale-teologico proposto, resta per quanto nuovo un esperimento incompleto, proprio nella misura in cui il dubbio viene scalzato prepotentemente via dalla messa in scena delle forze oscure di cui sopra. Lo spettatore cessa di essere il giurato non appena si appaga il suo animo più voyeuristico. Che sia una possessione demoniaca lo scopriamo eccome, perché lo vediamo. L’intrinseca ambiguità dell’evento sfuma in maniera ben poco raffinata, e a fine film viene da chiedersi a che pro il maligno si fosse manifestato anche agli occhi dell’avvocato, dato che nessuno scontro tra la nostra protagonista togata e il demonio ha in effetti seguito. Per toglierci il dubbio, è l’unica risposta possibile, per farci vedere il mostro, ancora una volta. Quel “mostro” che ci garantisce sempre un paio di brividi istantanei, ma subito dopo ci impedisce di partecipare alla vicenda con la nostra personale riflessione. Il dubbio è spazzato via, con esso il dilemma, e con essa la tensione che doveva generare il conflitto di coscienza. Però si è intravisto il mostro. Lucifero val bene un processo?