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id., USA, 2005
di Cameron Crowe, con Orlando Bloom, Kirsten Dunst,
Susan Sarandon, Alec Baldwin.
Un nuovo film di Cameron Crowe è sempre unottima occasione
per dare unocchiata al cinema da dentro. Se si resta abbastanza
lucidi e distaccati da porsi nei confronti di una delle sue opere con
piglio analitico, se ne può ricavare qualche interessante lezione
di cinematografia applicata. Non ci sono dubbi: Cameron è un
grande cuoco. Avrei potuto prendere appunti, rubare elementi qui e lì;
era forte la sensazione di trovarsi di fronte ad una sinergia di ingredienti
che erano stati accuratamente selezionati, raffinati nel corso di una
lunga carriera intellettuale prima che cinematografica in senso
stretto - per creare nel palato dello spettatore una serie di sapori
distinti e specifici. Una palatabilità calibrata perfettamente,
una gradevolezza da cioccolatino svizzero che si scioglieva al momento
giusto, né prima né dopo. Quindi ho provato, immodestamente,
a fare lanalisi degli ingredienti, ecco che ne è uscito
fuori.
La commedia
La madre di tutte le scioglievolezze cinematografiche; non
però una commedia quale che sia. La commedia in senso
dantesco: inizio drammatico, protagonista sullorlo del suicidio
per colossale fiasco professionale, perdita della gioia di vivere nonché
della fidanzata bella e stronza, che lo amava finché era un vincente
(già qui sentivo, nel buio discreto della sala, le prime lacrime
premere contro le palpebre); e finale radioso, comprensivo di grandioso
ritorno alla vita, del riconoscimento di quanto di bello in essa ci
sia e di come si può e si deve sempre rialzarsi in piedi dopo
una sconfitta. Delizioso.
La morte del padre
Ancora: non un padre quale che sia. Un padre misconosciuto
in vita, la notizia della cui dipartita arriva proprio mentre una coltellata
sta per essere vibrata a toglier dallimpaccio del vivere il nostro
povero Orlando Bloom. Che tempismo, ricordo di aver pensato. Ho rabbrividito,
grato per quello che lo schermo stava svelando per me. Ecco lamarezza
esplodere tenue ma pungente al tempo stesso, come il cuore morbido di
uno di quei bon bon che non sai mai nella vita quale ti può capitare.
Lamarezza del: troppo tardi, ti dicevi sempre, dovrei chiamare
pa, chiedergli come sta, cosa fa, se segue anche lui i playoff
questanno, se mi ha mai davvero amato e se è soddisfatto
della sua vita, insomma, le solite cose. Eppure è morto, e ora
tutto quello che posso fare è andare ai suoi funerali giù
nel rude Kentucky e confrontarmi con quel mondo che era il suo e non
il mio, e attraverso questa catabasi capire che le cose brutte nella
vita non sono far perdere un miliardo di dollari al mio capo Alec Baldwin,
sornione e paterno quanto implacabile. Ero in visibilio.
Kirsten Dunst
Cè da aggiungere altro? Sì, perché
Crowe lo fa. Aggiunge a quel sorriso e a quello sguardo dirompenti,
che farebbero meritare 5 stelle a qualsiasi film, unesuberanza,
una joie de vivre ingenua e assoluta come nessun regista
a mia memoria aveva fatto prima. Claire Colburn è langelo
della vita e dellamore in Elizabethtown, anche
se per volare deve indossare una divisa azzurra e indicare dove sono
i sacchetti per il vomito. È il Virgilio che prende per mano
Drew Baylor e lo accompagna per quel detour attraverso unAmerica
che è prima di tutto un luogo dellanima, in giro per piccoli
e grandi memoriali della sofferta, orgogliosa way of life di cui anche
il nostro si è nutrito a quattro palmenti. Tappa più importante?
Memphis, col migliore chili del mondo, e il National Civil Rights Museum
(sic!), costruito utilizzando alcuni elementi del motel dove fu assassinato
Martin Luther King (sic!!).
Il colpo di genio è che questo viaggio Cameron non ce lo suggerisce,
ce lo fa fare tutto, insieme al protagonista (sic!!!), a
suon di musica american roots che tarriva al cuore come forse
solo del buon vecchio bourbon può fare. La tenerezza mi attanagliava
mentre vedevo sullo schermo le paginette fitte della scrittura di Claire,
che suggerivano posti, proponevano le musiche da abbinare, mentre quei
pezzi scivolavano nellaria e si fondevano col paesaggio e coi
sentimenti di due cuori destinati a non rincontrarsi più (?).
Quanto amarcord persino io ho provato per un paese che non ho mai visitato
e che forse detesto anche un po. Ma questa è la magia del
cinema.
La storia damore onnipotente
Una love story già tutta in embrione prima ancora che
i due giovani cuori si incontrassero, e che per esplodere fragorosa
e romantica ogni oltre ragionevole aspettativa necessita soltanto che
lui incontri lei. Niente altro. Amore e basta, subito. Perché
perdere tempo con tensioni, conflitti, diversità, scontri e incomprensioni?
Diamine, abbiamo la Dunst e Bloom, usiamoli al meglio. Il cioccolato
piace a tutti, no? Eccovi la torta Elizabethtown, cioccolato
di marca a fiumi, senza tagli, assoluto. Va giù dritto fino in
fondo, abbondante che alla fine del film non puoi umanamente desiderarne
ancora. Non abbiate tema, sembra dire lo chef: questi due non possono
non finire insieme, non ci ho neppure provato a immaginare qualcosa
che possa mettersi tra loro. Adoro queste rassicurazioni.
Le musiche
Perfette. Unintera giovinezza spesa come corrispondente
della rivista Rolling Stone si fa sentire, quando serve.
Neppure necessita un affetto preesistente per quel tipo di musica, perché
è lamalgama che conta, e le ballate dei vari Tom Petty
o Elton John si fondono in modo alchemico ai campi lunghi lungo le highway
o ai ralenti della mano di Drew mentre sparge le ceneri del padre Mitch
dal bel ponte giallo di Beaver, in Arkansas, giù nel fiume White.
Troppo toccante.
Le didascalie
Il nostro chef è uno che si preoccupa, come ogni mastro
cuciniere che si rispetti, che la cena sia stata di nostro gradimento.
Si riserva per la scena finale di venire da noi, scendere tra le poltrone
e chiederci se abbiamo veramente gustato (=capito) il tutto, e per togliersi
qualsiasi dubbio ruba un paio di immagini dal Discovery Channel (sic!!!!)
e ci illustra la pazza fatica del salmone che nuota contro corrente,
perché lappetito alla vita in certi esseri è così
forte che non può essere soppresso, non importa quanto faticosa
sia la spinta di reni necessaria per rimettersi in corsa. Nel mio caso,
ammetto immodestamente che il messaggio era già chiaro dallinizio,
ma confesso anche che è stato gratificante, sulla scorta della
inevitabile identificazione col protagonista maschile, il suggerimento
a vedersi come una rappresentazione di quella forza della natura di
cui parla il film, puro conato alla vita, inarrestabile, fiero. Ero
in deliquio. Ero un salmone.
Il tip tap di Susan Sarandon
Su cui spendere parole sarebbe ingiusto. Mi sento di ringraziare
vivacemente la Sarandon per aver voluto far parte della lista della
spesa di Crowe in questo film. La sua performance è stata a mio
avviso la cosa che più si è avvicinata, in tutte le due
ore e passa di proiezione (sic!!!!!), ad un momento di ispirazione.
Cioè un momento in cui nessuno stava a tavolino a pensare con
la freddezza di un gourmet a come incrociare i vari ingredienti per
ottenere quei precisi stimoli papillari nel cuore dello spettatore.
O magari no. Magari lunica differenza è che in quei dieci
minuti davanti alla macchina da presa cera unattrice dalla
consumata esperienza, unesperienza chè anche una
bella tranche di storia del cinema americano, vissuta col
cuore oltre che con la testa, così tanto da poter confondere
noi spettatori al punto da farci scambiare per ispirazione quello che
in effetti è provato, vissuto, amorevole mestiere. Cosa che personalmente
non mi capita mai di fare col signor Crowe.
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