Elizabethtown

Salmone e cioccolato
di Emanuele Boccianti

 
  id., USA, 2005
di Cameron Crowe, con Orlando Bloom, Kirsten Dunst, Susan Sarandon, Alec Baldwin.


Un nuovo film di Cameron Crowe è sempre un’ottima occasione per dare un’occhiata al cinema da dentro. Se si resta abbastanza lucidi e distaccati da porsi nei confronti di una delle sue opere con piglio analitico, se ne può ricavare qualche interessante lezione di cinematografia applicata. Non ci sono dubbi: Cameron è un grande cuoco. Avrei potuto prendere appunti, rubare elementi qui e lì; era forte la sensazione di trovarsi di fronte ad una sinergia di ingredienti che erano stati accuratamente selezionati, raffinati nel corso di una lunga carriera – intellettuale prima che cinematografica in senso stretto - per creare nel palato dello spettatore una serie di sapori distinti e specifici. Una palatabilità calibrata perfettamente, una gradevolezza da cioccolatino svizzero che si scioglieva al momento giusto, né prima né dopo. Quindi ho provato, immodestamente, a fare l’analisi degli ingredienti, ecco che ne è uscito fuori.

La commedia
La madre di tutte le scioglievolezze cinematografiche; non però una commedia quale che sia. “La” commedia in senso dantesco: inizio drammatico, protagonista sull’orlo del suicidio per colossale fiasco professionale, perdita della gioia di vivere nonché della fidanzata bella e stronza, che lo amava finché era un vincente (già qui sentivo, nel buio discreto della sala, le prime lacrime premere contro le palpebre); e finale radioso, comprensivo di grandioso ritorno alla vita, del riconoscimento di quanto di bello in essa ci sia e di come si può e si deve sempre rialzarsi in piedi dopo una sconfitta. Delizioso.

La morte del padre
Ancora: non un padre quale che sia. Un padre misconosciuto in vita, la notizia della cui dipartita arriva proprio mentre una coltellata sta per essere vibrata a toglier dall’impaccio del vivere il nostro povero Orlando Bloom. Che tempismo, ricordo di aver pensato. Ho rabbrividito, grato per quello che lo schermo stava svelando per me. Ecco l’amarezza esplodere tenue ma pungente al tempo stesso, come il cuore morbido di uno di quei bon bon che non sai mai nella vita quale ti può capitare. L’amarezza del: troppo tardi, ti dicevi sempre, dovrei chiamare pa’, chiedergli come sta, cosa fa, se segue anche lui i playoff quest’anno, se mi ha mai davvero amato e se è soddisfatto della sua vita, insomma, le solite cose. Eppure è morto, e ora tutto quello che posso fare è andare ai suoi funerali giù nel rude Kentucky e confrontarmi con quel mondo che era il suo e non il mio, e attraverso questa catabasi capire che le cose brutte nella vita non sono far perdere un miliardo di dollari al mio capo Alec Baldwin, sornione e paterno quanto implacabile. Ero in visibilio.

Kirsten Dunst
C’è da aggiungere altro? Sì, perché Crowe lo fa. Aggiunge a quel sorriso e a quello sguardo dirompenti, che farebbero meritare 5 stelle a qualsiasi film, un’esuberanza, una “joie de vivre” ingenua e assoluta come nessun regista a mia memoria aveva fatto prima. Claire Colburn è l’angelo della vita e dell’amore in Elizabethtown, anche se per volare deve indossare una divisa azzurra e indicare dove sono i sacchetti per il vomito. È il Virgilio che prende per mano Drew Baylor e lo accompagna per quel “detour” attraverso un’America che è prima di tutto un luogo dell’anima, in giro per piccoli e grandi memoriali della sofferta, orgogliosa way of life di cui anche il nostro si è nutrito a quattro palmenti. Tappa più importante? Memphis, col migliore chili del mondo, e il National Civil Rights Museum (sic!), costruito utilizzando alcuni elementi del motel dove fu assassinato Martin Luther King (sic!!).
Il colpo di genio è che questo viaggio Cameron non ce lo suggerisce, “ce lo fa fare tutto, insieme al protagonista” (sic!!!), a suon di musica american roots che t’arriva al cuore come forse solo del buon vecchio bourbon può fare. La tenerezza mi attanagliava mentre vedevo sullo schermo le paginette fitte della scrittura di Claire, che suggerivano posti, proponevano le musiche da abbinare, mentre quei pezzi scivolavano nell’aria e si fondevano col paesaggio e coi sentimenti di due cuori destinati a non rincontrarsi più (?). Quanto amarcord persino io ho provato per un paese che non ho mai visitato e che forse detesto anche un po’. Ma questa è la magia del cinema.

La storia d’amore onnipotente
Una love story già tutta in embrione prima ancora che i due giovani cuori si incontrassero, e che per esplodere fragorosa e romantica ogni oltre ragionevole aspettativa necessita soltanto che lui incontri lei. Niente altro. Amore e basta, subito. Perché perdere tempo con tensioni, conflitti, diversità, scontri e incomprensioni? Diamine, abbiamo la Dunst e Bloom, usiamoli al meglio. Il cioccolato piace a tutti, no? Eccovi la torta Elizabethtown, cioccolato di marca a fiumi, senza tagli, assoluto. Va giù dritto fino in fondo, abbondante che alla fine del film non puoi umanamente desiderarne ancora. Non abbiate tema, sembra dire lo chef: questi due non possono non finire insieme, non ci ho neppure provato a immaginare qualcosa che possa mettersi tra loro. Adoro queste rassicurazioni.

Le musiche
Perfette. Un’intera giovinezza spesa come corrispondente della rivista “Rolling Stone” si fa sentire, quando serve. Neppure necessita un affetto preesistente per quel tipo di musica, perché è l’amalgama che conta, e le ballate dei vari Tom Petty o Elton John si fondono in modo alchemico ai campi lunghi lungo le highway o ai ralenti della mano di Drew mentre sparge le ceneri del padre Mitch dal bel ponte giallo di Beaver, in Arkansas, giù nel fiume White. Troppo toccante.

Le didascalie
Il nostro chef è uno che si preoccupa, come ogni mastro cuciniere che si rispetti, che la cena sia stata di nostro gradimento. Si riserva per la scena finale di venire da noi, scendere tra le poltrone e chiederci se abbiamo veramente gustato (=capito) il tutto, e per togliersi qualsiasi dubbio ruba un paio di immagini dal Discovery Channel (sic!!!!) e ci illustra la pazza fatica del salmone che nuota contro corrente, perché l’appetito alla vita in certi esseri è così forte che non può essere soppresso, non importa quanto faticosa sia la spinta di reni necessaria per rimettersi in corsa. Nel mio caso, ammetto immodestamente che il messaggio era già chiaro dall’inizio, ma confesso anche che è stato gratificante, sulla scorta della inevitabile identificazione col protagonista maschile, il suggerimento a vedersi come una rappresentazione di quella forza della natura di cui parla il film, puro conato alla vita, inarrestabile, fiero. Ero in deliquio. Ero un salmone.

Il tip tap di Susan Sarandon
Su cui spendere parole sarebbe ingiusto. Mi sento di ringraziare vivacemente la Sarandon per aver voluto far parte della lista della spesa di Crowe in questo film. La sua performance è stata a mio avviso la cosa che più si è avvicinata, in tutte le due ore e passa di proiezione (sic!!!!!), ad un momento di ispirazione. Cioè un momento in cui nessuno stava a tavolino a pensare con la freddezza di un gourmet a come incrociare i vari ingredienti per ottenere quei precisi stimoli papillari nel cuore dello spettatore.
O magari no. Magari l’unica differenza è che in quei dieci minuti davanti alla macchina da presa c’era un’attrice dalla consumata esperienza, un’esperienza ch’è anche una bella “tranche” di storia del cinema americano, vissuta col cuore oltre che con la testa, così tanto da poter confondere noi spettatori al punto da farci scambiare per ispirazione quello che in effetti è provato, vissuto, amorevole mestiere. Cosa che personalmente non mi capita mai di fare col signor Crowe.