the Dreamers
Il ’68 tra parentesi
di Luca Perotti


Venezia 60 - 2003
  the Dreamers, Francia-Italia, 2003
di Bernardo Bertolucci, con Eva Green, Louis Garrel, Michael Pitt


Materia piuttosto delicata, The Dreamers.
Per una serie di ragioni che lo rendono qualcosa di più che uno dei tanti film in uscita.
Perché è un film italiano, innanzitutto, e quindi associato ad un certo grado di permalosità. Perché è diretto da un intoccabile (in quanto italiano). Perché parla del ’68. Perché è stato preceduto e seguito da un fuoco di affermazioni e vaneggiamenti vari, da dichiarazioni (tante) del regista, estremamente preoccupato (troppo) che le sue intenzioni venissero travisate, e perfino da chi ha rivendicato il diritto(?) di giudicare il film senza neanche averlo visto (Giuseppe Ferrara – ndr).
Perché, e mi fermo qui, The Dreamers è uno di quei film che lascia espettorare da più bocche uno degli ‘ismi’ più noiosi: il revisionismo, una parola (e un concetto) impiastricciata e troppo in voga nelle tribune televisive.
Alla luce di questi piccoli-grandi ostacoli, risulta abbastanza difficile, quindi, defilarsi e analizzare il film senza lasciarsi influenzare da suggerimenti interpretativi o prese di posizione farneticanti.
Non resta che stare al gioco, dunque. O almeno in parte. E provare a ragionare (molto brevemente…) a partire da un’affermazione dello stesso Bertolucci:
C’è in atto – dice il regista – la volontà di archiviare il ’68 come esperienza profondamente negativa. Se pensiamo ai rapporti interpersonali, a come è strutturata oggi la società, ai rapporti uomo-donna, ci rendiamo conto che viviamo in una società disegnata proprio in quegli anni”.
Ma proprio qui sta il punto.
Perché lo spirito trasgressivo di The Dreamers finisce per infrangersi proprio contro la messa in scena di un’iniziazione (di tre giovani, di una mentalità, di una società) per noi immediatamente riconoscibile perché già precedentemente vissuta. Si tratta di un’esperienza già fatta (almeno al cinema) e che smarrisce il suo carattere trasgressivo se ripresentato come evento nell’ambito di una società che, essendo stata strutturata da quell’esperienza, non può più recepirla per la sua provocazione.
Quei sogni, quell’impegno, quelle utopie sono parte della nostra educazione, per cui The Dreamers non può suscitare quel soffio ribelle che Bertolucci ha auspicato nel corso di molte interviste, perché è un film assolutamente decifrabile e prevedibile pur nella sua bellezza figurativa.
La limpidezza del film diventa il suo limite e insieme la sua energia. Ma è un’energia che si accende e si spegne all’interno dei confini spazio-temporali della visione.
Quando giravo Novecento pensavo che un film potesse cambiare la realtà. Ora ho perso la fiducia nel potere messianico del cinema”- ha detto il regista.
Un’affermazione più in armonia con la valenza specifica di The Dreamers che, allora, andrebbe apprezzato più per la delicatezza del tocco, quasi naive, con cui il regista descrive le gioie erotiche, i dubbi esistenziali e le gare cinefile dei tre giovanotti chiusi in un appartamento parigino mentre fuori monta la contestazione. Piuttosto che per il proposito di aprire delle porte che sono state già sfondate.
La morbidezza della regia risulta a sua volta abbastanza scontata ma riesce, almeno, nell’intento di caratterizzare il film di un tratto squisitamente personale, bertolucciano appunto, fin quando non viene oscurata da velleità di stampo politico e sociologico.
L’appartamento in cui i tre ragazzi si isolano, diventa il teatro di una messa in scena giocata sul transito da un opposto all’altro: il candore e la spudoratezza; la consapevolezza e lo sbandamento; la partecipazione e la fuga.
Ma The Dreamers è un luogo filmico conchiuso che non sa (non può) aprire altri spiragli sul ’68, né far esplodere afflati d’altri tempi.
Le sue ambizioni finiscono per far emergere i suoi difetti quando tenta l’azzardo: allontanarsi dalle simmetrie graziose della macchina da presa, dal calligrafismo piacevole della fotografia per ispirare interrogazioni, dibattiti, revisionismi. Quando, in realtà, tutto il valore del film (basso, alto, ordinario, questo è da vedere) coincide semplicemente con lo sguardo complice che osserva quei corpi casti e lascivi chiusi tra quattro mura e impegnati a conoscersi.
Un valore apprezzabile soprattutto se si sceglie di stare al gioco. Magari fingendo di non aver mai visto qualcosa di simile.