|
Id., Usa, 2005
di Mikael Håfström, con Clive Owen, Jennifer Aniston, Vincent Cassel, Melissa George.
La seduzione della trasgressione. Il senso di colpa derivato dal tradimento. L’ossessione della verità (mal)celata. L’asfissiante senso di incombenza giudicatrice. Il micidiale concretizzarsi della sadica minaccia familiare, tra quelle mura domestiche ormai ultima roccaforte dell’etichetta piccolo-borghese. E poi la svolta catartica, la violenza vendicatrice – alla fine inevitabile.
Sembrerebbe lo schema d’accoppiamento metropolitano su cui Adrian Lyne ha costruito il suo cinema più interessante, quello di Attrazione fatale e del suo doppio speculare l’Amore infedele. Da quest’ultimo, per il suo dignitoso esordio hollywoodiano, Mikael Håfström prende in prestito l’ottimo Peter Biziou. De facto ma non in modus operandi. Più intenso e tormentato (senza risparmiare però su una certa patina di glamour contemporaneo) il thriller-noir del regista svedese si esprime in un’estetica raggelata, una durezza che trova nelle luci la traduzione finale di un testo più aspro delle eleganti indagini wasp di Lyne.
Vent’anni dopo lo sfogo possessivo della Alex Forrest/Glenn Close di Attrazione fatale, la minaccia con cui l’eroe-suo-malgrado Charles Schine (Clive Owen) deve confrontarsi è già nel focolaio familiare: una giovane figlia diabetica necessitante di cure dispendiose. La sceneggiatura di Stuart Beattie lascia poi cadere altre facili approssimazioni con il lungometraggio di riferimento veicolando un interesse predominante per il percorso di un uomo alle prese con le sue responsabilità ed allontanandosi drasticamente dalle dinamiche dal triangolo sentimentale canonico e dei relativi accessori soft-erotici. Spicca invece, sia nei primi tentavi di occultamento del tradimento da parte di Charles quanto e soprattutto nella successiva difesa dalle pericolose richieste del rapinatore, una confronto uomo a uomo che s’impadronisce del film approntandolo ad un sottile (e fortunatamente non eccessivamente calcato) studio conradiano. Con l’autolesionismo (fisico, mentale ed economico) cui progressivamente Charles s’immerge si centralizza la figura di LaRoche , un azzeccato (ma sprecato nei sopra le righe) Vincent Cassel che insieme alla memoria di Cape Fear (proporzioni scorsesiane definiscono comunque anche il primo climax vendicativo del protagonista) ristabilisce una figura antagonistica importante - seppur spesso sommaria nella sbozzo - basilarmente funzionale ad un contrasto/confronto maschile già preponderante nel precedente script a firma di Beattie, Collateral.
Con una controparte femminile prima indefinita e poi sfuggente (la Aniston sembra impegnarsi ma la sua resa è altalenante) la figura del francese, volendo tornare al paragone con il film di Lyne (d’altronde anche il sottotitolo italiano, “attrazione letale”, non lascia scampo), sposta l’accento sulla paura contemporanea della middle-class per l’intruso fine a sé stesso, l’imprevisto demolitore della tranquillità che costringe al valico della linea d’ombra. Nessun rifiuto scatenante, nessun amore non corrisposto o figlio da voler crescere con l’amante recidivo: semplicemente un mero ricatto economico. E la speculazione emotiva che soppianta il troppo amore. La sfacciata avidità di LaRoche/Cassel contrasta certo con il sentimento inappagato di Alex/Glenn Close in quanto a movente, ma il procedimento del terrore li unisce nella loro anormalità: LaRoche sarebbe stato il Madama Butterfly su cui un giovane Charles avrebbe trasalito.
Sufficientemente risolto nonostante l’accumulo di plot-point, il punto di forza di Derailed sta proprio nella compattezza di una sceneggiatura debitamente calibrata (dal libro di James Siegel), che Håfström elabora in una regia dove sulla troppa correttezza e rigidità ha forse la meglio lo sguardo ‘straniero’ sulla società americana. Anche grazie alla riuscita interpretazione di Clive Owen la pellicola trova la giusta tensione e vi si mantiene costantemente, evitando di girare a vuoto - come capita invece alle musiche di uno sfuocato Edward Shearmur, che indeciso tra influenze newmaniane e tocchi a là John Powell non centra il film fornendo forse la prima prova deludente di una carriera finora notevolissima.
|