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Attenzione, heavy spoiler! La recensione
contiene importanti rivelazioni sulla trama del film!
Il fatidico 18-01-08 è giunto, e il suo nome è
Cloverfield. La data citata in partenza - giorno di
uscita del film negli Stati Uniti -, è la formula rimbalzata
un po ovunque nella rete fin dalla prima messa in cantiere dellopera,
assurta ad un precoce stato di cult non appena è trapelato dai
crediti, alla voce produttore (e ideatore, e creatore ultimo) il nome
di J.J. Abrams. Il Re Mida del piccolo schermo americano, ora personalità
di punta della scuderia Paramount - per la quale si appresta a rinverdire
i fasti di uno dei franchise storici, nientemeno che Star
Trek -, nonché furbacchione da competizione, folgorato
da un viaggio in Giappone ha deciso di mettere la mani sul monster
movie, scomodando le ingombranti eredità di Re Kong, Godzilla
e progenie assortita. Promotore abilissimo, utilizza il web da par suo,
e in poche settimane è già una raffica di notizie, congetture,
immagini, e tutta una teoria di teaser apocrifi scaricabili
da siti altrettanto fake. Metabolizzata licona della
Statua della Libertà decapitata - limmagine che per prima
ha fatto il giro del mondo: e aspettate di vedere la sequenza in questione
-, a rimanere aperta era ancora la caccia al mostrone: chi
è, da dove viene, ma soprattutto come è. In
merito, già pronte le immancabili action figures,
battute dai siti di vendita on-line con tanto di foto oscurata fino
alluscita del film (ma lattesa per il pubblico italiano
si prolunga fino al 1° febbraio, quindi alla larga dai siti americani,
dove la creatura alligna già dal 18 corrente mese).
Sgombrato il campo dalla fuffa promozionale, resta il film. Che, è
bene dirlo subito, fa dannatamente paura, pur non indovinando la ricetta
del capolavoro. Abrams - non ce ne voglia Matt Reeves, accreditato alla
voce director (anche lui di incubazione televisiva), se
in questa sede gli anteporremo la mente delloperazione
- imbraccia la più classica delle armi a doppio taglio fornite
dal mezzo espressivo, e sceglie di giocare col cinema diretto(virgolettatura
dobbligo, a mo di rispettoso distanziamento dagli esperimenti
di Jean Rouche e John Cassavetes). Quindi, con buona pace del narratore
onnisciente e della focalizzazione spettatoriale, qui locchio
della macchina da presa coincide tout court con lo sguardo di uno dei
protagonisti. Infatti, entrando nella sinossi, il file denominato Cloverfield
riguarda un evento documentato dalla registrazione di una videocamera
digitale rinvenuta nella zona un tempo conosciuta come Central
Park (così recita il cartello posto in testa alla
proiezione). Il film è la registrazione, riprodotta così
come il defunto operatore lha effettuata, tra laltro
utilizzando un nastro non vergine, per cui lo spettatore vede affiorare
di tanto in tanto frammenti delle riprese originali, relative ad una
giornata damore di due dei personaggi principali della vicenda,
a loro volta amici dellimprovvisato cameraman; furbissima trovata,
questultima, rispondente tuttavia anche a criteri di mera fluidità
narrativa, considerata la delicata modalità di focalizzazione
interna scelta dagli autori: la mancanza di un resoconto
in terza persona rende infatti lescamotage necessario, e gli inserti
assumono a tutti gli effetti lo statuto di flashback funzionale alla
corretta comprensione degli eventi descritti. Purtroppo, e non poteva
essere diversamente, è proprio qui - nel manico,
si direbbe - che risiede anche il difetto principale del film. Metabolizzato
il poderoso impatto sensoriale dellincipit, e addentrandosi nella
vicenda, si ha subito limpressione di quanto potesse essere meglio
gestito il sistema di informazioni ed emozioni da elargire ad uno spettatore
totalmente impotente, il cui punto di vista è costretto a coincidere
con quello di una videocamera piazzata in mano ad una vittima del disastro;
in questo senso, le stesse tracce della registrazione precedente - quella
relativa alla giornata dei due ragazzi -, avrebbero dovuto essere utilizzate
non solo per informare, ma soprattutto per raccontare, opzione che avrebbe
avuto leffetto di render ancora più consistente il carico
di suspence della storia. Peccato. Laddove invece la riuscita artistica
dellopera eccelle è nella rappresentazione visiva della
catastrofe, ovviamente lambito in cui il rapporto tra il particolare
punto di vista adottato e il profilmico ripreso crea il vero corto circuito
emotivo del film. Intendiamoci, è di primaria importanza che
la sospensione dellincredulità raggiunga livelli ragguardevoli,
pena la totale esclusione dal gioco: non è tanto a causa del
principale responsabile del disastro rappresentato - un rettiloide alto
come un palazzo di trenta piani che da solo vale il biglietto - quanto
per il fatto che lindefesso operatore non smette mai di riprendere
il massacro che gli si squaderna davanti agli occhi, nemmeno quando
è in procinto di finire egli stesso nelle fauci del mostro -
ma è proprio in quel momento che la videocamera ci consegna un
primo piano di Clover che è fra i momenti più
forti del film, anche perché a ben vedere siamo noi
ad essere sul punto desser divorati
Ebbene, il corto circuito
di cui sopra è figlio del dispositivo stesso scelto
dagli autori, in virtù del quale la visione spettatoriale si
trova a tutti gli effetti prigioniera di ciò che
al malcapitato Hud capita di riprendere con la sua handycam; niente
uso consapevole di totali, dunque, né di primi piani, o di dettagli:
niente linguaggio. Soprattutto, niente montaggio. Solo un video amatoriale,
non filtrato, non costruito, diretto (ahi), che il più
delle volte non concede al nostro sguardo di andare dove vorrebbe, considerati
i notevoli impedimenti tecnici del caso (mai una ripresa stabile, prolungata,
nitida, a fuoco, in bolla, e chi più ne ha più ne metta).
Ovviamente, e va da sé, il meccanismo cela un grado di costruzione
e artificio che è in realtà massimo. Ma non per questo
lassunto viene a cadere; al cinema, si sa, quel che conta è
sempre leffetto, non il procedimento seguito per ottenerlo. Ed
è leffetto di realtà che Cloverfield
cerca e trova, il realismo della messa in scena - per dirla
in un altro modo - lobiettivo primo e ultimo dei suoi autori.
Che poi si tratti comunque, appunto, di messa in scena -
è bene tenerlo a mente -, è un dettaglio che perterrebbe
a tuttaltro tipo di analisi.
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