Che ne sarà di noi
Avessi ancora diciott’anni…
di Adriano Ercolani

 
  Italia, 2004,
di Giovanni Veronesi, con Silvio Muccino, Violante Placido, Elio Germano, Giuseppe Sanfelice, Myriam Catania.


Lui, giovane maturando, è completamente innamorato di lei, più grande, matura e smaliziata: quando lui la riaccompagna a casa, lei lo saluta in maniera frettolosa e si dirige verso il portone. Parte la voce off di lui, che la supplica di voltarsi e salutarlo come si saluterebbero due innamorati. Lei non si volta, entra nel portone di casa senza fare una piega. Ecco, appunto, pensa lui, e se ne va. L’incipit di Che ne sarà di noi sembrava far presagire un film brioso, sopra le righe, divertente. Non è così.
Sulla scia dei buoni sentimenti e dell’esistenzialismo da supermercato di questa sciagurata, superficiale Era Muccino, ecco arrivare il primo film ideato e realizzato addosso al piu giovane dei due, l’adolescenziale Silvio, co-autore del soggetto. L’idea di partenza, per nulla disprezzabile, è stata quella di affidare sceneggiatura e regia a Giovanni Veronesi, cineasta forse troppo legato alla sua fama di scrittore di storie ‘semplici’ (vedi sceneggiature per Pieraccioni), ma comunque di sicuro mestiere, soprattutto quando si tratta di dare forma e struttura narrativa alla storia. La capacità di Veronesi di costruire i personaggi e tenere viva la vicenda tiene infatti almeno per un tempo, e durante la fase di set-up dei tre protagonisti si susseguono situazioni e battute piuttosto divertenti, soprattutto grazie alla figura di Manuel (Elio Germano), il personaggio più complesso e meglio tratteggiato. Certo, neppure nella prima parte mancano momenti e frasi di pura retorica, ma sono sopportabili, o quantomeno non nuociono più di tanto al film. Il vero disastro arriva invece quando Che ne sarà di noi deve chiudere le storie, definire pienamente le psicologie, determinare le necessarie svolte narrative per arrivare ad una conclusione: ecco che la sceneggiatura crolla in un susseguirsi praticamente ininterrotto di luoghi comuni, di ovvietà sentimentali, di stucchevoli frasi ad effetto. La maggior parte dei personaggi mostra nel secondo tempo di avere il fiato corto, di non sapere in effetti cosa fare né dove andare, e soprattutto di non possedere la necessaria profondità psicologica ed emotiva per coinvolgere lo spettatore (almeno quello che ha passato la fase di vita descritta dal film). Veronesi tenta invano di risollevare le sorti del film con una regia il più possibile equilibrata, accatastando però momenti e scene troppo ‘false’ per convincere. Gli attori di certo non aiutano a salvare la pellicola: se Silvio Muccino ce la mette tutta ma più di tanto non può, il vero punto dolente è Violante Placido, bambolina di porcellana tutta moine e sinuosità, ma di scarsa importanza espressiva. A confronto, le mal delineate altre figure femminili risultano più accattivanti. L’unico a salvarsi rimane Elio Germano, efficace nel delineare le sfaccettature maggiormente aggressive ed amare del più solido dei personaggi in scena: la sua interpretazione istintiva, sbarazzina e un po’ sorniona, conferisce a Manuel delle incoerenze assolutamente veritiere. In mezzo a tanta ovvietà, davvero non è poco.