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Non sembra essere sufficiente avere
il bergmaniano Sven Nykvist come direttore della fotografia, girare
un film di questa eleganza, gestire un cast di primedonne con tale scioltezza,
per evitare di essere etichettato come autore di un film minore. Non
è sufficiente nemmeno confezionare un film all'anno da più
di venti anni, come Woody Allen è ormai solito fare per avere
il diritto di non essere giudicato sia positivamente che negativamente
dopo un minuto dai titoli di testa. Ogni film ha una sua autonomia,
non è mai legato a doppio filo al film precedente. Celebrity
non ha l'impatto comico dirompente di Harry a pezzi
ed è ovvio rimanere delusi se ci si siede in sala con le mascelle
in tiro, pronti per ridere a crepapelle. Soprattutto se il film possiede,
come in questo caso, un paludoso sottofondo di amarezza e disillusione,
condito tuttavia da sequenze molto divertenti e raccontato con tono
leggero.
Tutto ruota attorno alla figura di un giornalista confuso e alla ricerca
di una parvenza di identità professionale; è attraverso
di lui che si spalanca davanti ai nostri occhi una serie di personaggi
mediocri e fossilizzati che Allen e Nykvist scelgono di seppellire con
uno splendido bianco e nero. Kenneth Branagh è in realtà
lo pseudoprotagonista di un film corale dove tutti i personaggi sembrano
essere dei fantasmi di se stessi, dei non-morti, invisibili allo specchio
davanti al quale passano la vita ad ammirarsi. Solamente Judy Davis
sembra essere umana; l'unica capace di cambiarsi con i fatti, pur tra
mille incertezze ed ansie, ma è più che una sensazione
prevedere un futuro da diva televisiva in decomposizione anche per lei.
Un pessimismo cosmico pervade il film, che inizia e si conclude con
una richiesta d'aiuto scritta in cielo ed inserita in una sequenza metacinematografica
che la rende ancora più solitaria e disperata. La pioggia battente
che contorna l'evento mondano della proiezione del film nel film the
Liquidator dovrebbe liquidare tutto quello visto fino a quel
momento: la fauna viziosa e superficiale che Allen ci mostra ammucchiata
nei party, incastrata a forza in inquadrature grandangolate perché
il principio ossessivo è quello del essere presente; ma è
una speranza vana perché è l'evento stesso ad annullare
quella richiesta di salvataggio.
Quello che sembra essere il nucleo del film e per il quale ogni via
d'uscita sembra impraticabile è che ormai l'accusatore è
anche l'accusato; la disapprovazione della vacuità del mondo
è espressa proprio da chi è vacuo. La mancanza di lucidità
è talmente radicata ed irreversibile che i protagonisti e i fautori
del fallimento sono anche coloro i quali lo satireggiano. Sembra una
congiura inconsapevole, un tessuto impermeabile privo di differenze,
contrasti, vie di fuga. Allen prova a spingere sull'acceleratore dello
sberleffo nella sequenza che vede riuniti negli studi televisivi naziskin
che scherzano con gli ebrei; un esponente dei diritti civili a colloquio
con i membri del ku klux klan. Tutti in attesa spasmodica del loro quarto
d'ora di popolarità. Il sarcasmo del regista newyorchese mira
a denudare il fascino di questo mondo, lo priva di ogni colore e sgargianza
fissandolo nella sua intrinseca decadenza. Vuole scardinare l'ossessione
dell'immagine alla cui ricerca è anche il protagonista, la cui
sorte è di vedere fallite le sue ambizioni basate su romanzi
di pessima qualità, e sembra il personaggio più fortunato
alla fine perché costretto a mantenere una posizione estranea
al mondo di cui scrive. Le figure marginali sembrano essere le sole
dotate di saggezza e della giusta dose di indifferenza: la prostituta,
la chiromante, le due signore anziane che non conoscono le presunte
celebrità e quindi le azzerano. Lo stato d'animo del film tuttavia
sembra denso di avvilimento, di impotenza verso qualcosa di non modificabile.
I borghesi che Allen metteva in ridicolo in Manhattan
o in lo e Annie costituivano una minoranza di snob,
da amare e odiare; delle piccolo isole in cui ci si imbatteva difficilmente.
Vent'anni dopo penetriamo in un flusso di vita intriso di altezzosità
di meteore che nascono. vivono e muoiono prive di talento.
Il guaio di Woody Allen è che ormai il pubblico, non solo il
suo, è convinto di aver assimilato le sue tematiche, è
persuaso che ogni film sia ormai una riproposizione priva di rischio
delle solite manie, delle solite battute. Chi lo ama esce dalla sala
soddisfatto per aver visto un altro film di Woody Allen, e chi lo odia
esce soddisfatto per lo stesso motivo. Non li smuove niente, né
la facilità di incastro narrativo, né l'estro registico,
né la sua straordinaria abilità di spostare ogni volta
il punto di vista. Non li smuove nemmeno la semplice intuizione che
contro un mondo buio come quello descritto in Celebrity,
un mondo senza via di scampo, l'unica fievole luce potrebbe essere un
piccolo film minore in bianco e nero.
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