Prima ancora di affrontare il Joker
e qualsiasi altro cattivo, il Cavaliere Oscuro doveva affrontare la
minaccia ben più sottile del sequel, Nolan lo sapeva bene. Si
è preparato il terreno di scontro con largo anticipo, innanzitutto
indovinando già tre anni fa il titolo giusto: quella piana, semplice
allitterazione inventata con Batman begins
stornava sul nascere qualsiasi successiva velleità di numerazione,
trappola in cui invece cade Raimi con tutte le scarpe con i suoi uomini
ragno. A meno di non voler prendere in giro il mondo intero con un esilarante
Batman goes on, ma né Nolan né l'uomo pipistrello
sembrano essere dotati di tanta suicida autoironia. Perchè Dark Knight non è un sequel incastrato nell'ottica angusta del sequel, apparentemente il vero nemico dei supereroi dello schermo, se non altro perchè non funziona seguendo le logiche puramente accumulative e reiterative tipiche di molti seguiti cinematografici. I fratelli Nolan escono vittoriosi da questo confronto - anche se riportano delle ferite, vedremo quali - perchè investono la narrazione di un tema, quello dell'ambiguità, che muove e anima da dentro una struttura complessa e ipertrofica di oltre centocinquanta minuti rendendola, se non proprio agile come avrebbe dovuto, sempre percorribile, molto spesso avvincente. In primo luogo le carte vengono mischiate: Batman non è più solo, e fortunatamente non è Robin ad affiancarlo, ma un procuratore distrettuale in giacca e cravatta: niente calzamaglia. Harvey Dent ha la faccia scoperta e pubblica di Aaron Eckhart, volto accattivante e squadrato senza essere banale, così come non è banale il suo ruolo, e dimostra come alcuni dei semi piantati dal nostro eroe nel primo film sono germogliati e hanno dato frutti; qualcuno ha avuto il coraggio di alzare la testa e opporsi all'ecatombe criminale che appestava Gotham City. Dall'altra parte della barricata, la cara vecchia Mafia, termine usato in maniera giustamente generica per indicare un'organizzazione tentacolare e multiforme che ha il volto del tipico capo dal nome - per noi - buffamente italiano, di uno scagnozzo unto e abrasivo, feroce capobanda di strada, e di una multinazionale di Hong Kong in blazer acquamarina. Una mafia che però comincia ad accusare i colpi congiunti di Dent e Batman, e si vede costretta ad affiliarsi al Joker per ristabilire il suo dominio globale, malgrado il rapporto con questo squilibrato, com'era prevedibile, sia più che altro di amore e odio. In tale doppio misto, a cui ovviamente prende parte il bravo Jim Gordon (un Gary Oldman lontano dagli eccessi virtuosi degli anni '90), si snoda una guerra caotica e sfibrante, di cui Gotham City è teatro e succube, sventrata ora come non mai dalle finezze bombarole del pagliaccio deforme, una città sempre meno dark, più aperta alla piena luce del sole e moderna, tecnoforme. Quelle due ore e mezzo sono un groviglio di situazioni letteralmente esplosive, irte di capovolgimenti e colpi di scena che ovviamente non vanno svelati, basti dire che servono ai fratelli Nolan al giusto intento di dare spazio di sviluppo a tutti i personaggi della storia e alle loro mutue relazioni, ivi compreso un Gordon più eroico e una Rachel Dawes (ora con le fattezze di Maggie Gyllenhall) dalla psicologia e dall'affettività meno trasparente, più sfumata e ambigua. Ambiguità, appunto. Se nel primo film l'ispirazione era data dal tema della paura, articolato perfettamente nei due corni avere paura/incutere paura legati da un rapporto causa/effetto (intuizione originaria del creatore di Batman, Bob Kane, ma che Nolan porta alla luce da embrione qual'era, magnificandola con grande sensibilità), il tema ispiratore del sequel-non-sequel sembra essere quello della doppia faccia, ossia della difficoltà, perfino in un mondo di carta come quello dei supereroi, di potersi permettere il lusso del manicheismo, e dividere il flusso magmatico della realtà - e dei sentimenti - in una comoda schematizzazione buoni / cattivi, amore / odio, giustizia / vendetta, verità / menzogna, solo per citare le coppie concettuali più evidenti. Ovviamente l'emblema dell'ambiguità è a portata di mano per tutto il film (o meglio dalla seconda metà), Dent ce l'ha scolpita sul volto, è quello che la patisce a livello epidermico, muscolare e emozionale più di tutti, ma si tratta dell'incarnazione (escarnazione?) più superficiale: il regista si appropria di uno dei cattivi tradizionali dell'uomo pipistrello, Due-Facce, riscattando la bruttura perpetrata a suo tempo da Tommy Lee Jones (ma erano altri tempi), togliendo ogni scema caratterizzazione da pupazzone col delirio di onnipotenza, e riempiendolo di vita vera, di un'evoluzione personale e di una melodrammatica parabola discendente, finendo per trasformarlo in una chiave di lettura viva e vivente. D'altro canto il tema dell'ambiguità risuona, declinato in maniera appena meno lampante, nella dinamica di tensione proprio tra il nostro eroe e Joker, indubbiamente l'asso nella manica, quest'ultimo, di tutto il film. Il compianto Heath Ledger va ben oltre il prendere le distanze dall'interpretazione di Nicholson, perchè in questo nuovo contesto è già il regista-sceneggiatore stesso a fare il lavoro più grosso, e non c'è dubbio che qualunque altro attore sarebbe stato costretto a muoversi in una direzione nolaniana dell'interpretazione (antipodica rispetto all'era burtoniana). Quello che Ledger ci mette di suo sembra una sotterranea ma tangibile malinconia depressiva, una sorta di resistente autoemarginazione dal mondo, che dipinge il Joker non come il buffone killer dalle manie di grandezza, che vuole dominare il mondo perchè del mondo, come dominatore, vuole farne parte. Molto più amaramente, pare di trovarsi al cospetto di un individuo impossibilitato a trovare il suo posto nella realtà esterna come in quella interiore, devoto solo all'ammirazione della propria geniale capacità distruttiva e - soprattutto - autodistruttiva, consapevole che nulla in realtà ha davvero senso e spiegazione, neppure se stesso. Ciò gli permette, come scopriamo nel film, di procedere ad una perversa de-costruzione del suo stesso mito, non perchè, come si è letto altrove, la leggenda di Joker, icona impersonale del caos, sia declinabile all'infinito, ma perchè la corrosione cinica delle impalcature morali e sociali investe perfino se stesso. Mentre tedia il malcapitato di turno - e noi spettatori - con versioni lacrimevoli ogni volta diverse del suo passato, Joker non si prende gioco del suo interlocutore, ma di se medesimo e di chi sta dall'altra parte dello schermo. Almeno in una certa misura, si tratta del primo supercriminale dei fumetti che non crede in sé, non in quello che fa. Lo fa perchè soffre. Batman è l'alter ego positivo, l'altra faccia di Joker, è proprio lui a rivelarglielo. Al termine della storia lo vediamo segregarsi quasi di buon grado nel ruolo del reietto, contro il quale devono necessariamente puntarsi l'astio e l'ostilità della città, perchè quella è l'unica dimensione in cui può continuare a riservarsi il diritto di essere ciò che è, impersonando gli aspetti più oscuri della società: punizione, vendetta, illegalità dei metodi, distorsione della realtà. Anche Batman soffre, anche Batman vive il dramma della non accettazione di se stesso; e lo spettatore scoprirà che è proprio così, che il personaggio Batman può essere tollerato e anche amato, non la persona, non l'uomo. Fosse possibile l'auto-accettazione, e quindi il diritto a volersi bene e a farsi volere bene, Bruce Wayne non avrebbe mai imboccato quel sentiero; sarebbe bastato, molto semplicemente, mettere a disposizione della legge la sua favolosa cornucopia di tecnologia anticrimine, invece di sussumerla segretamente su di sé, diventando l'emarginato sociale e affettivo che di fatto è. Tenendo conto di questo spessore, dell'originalità della rilettura di un'icona che sembrava solo tre anni fa un lembo residuale degli anni '80, con le sue semplificazioni e i suoi stereotipi da narrativa d'evasione, i pur evidenti limiti di una sceneggiatura così gonfia e logorroica, le filiazioni di sub-plot che in alcuni casi sono appendici sfilacciate, tortuose e in certi momenti perfino stancanti, passano in secondo piano. È abbastanza evidente che al film manchi una certa compattezza strutturale, che alcuni passaggi di scrittura siano deboli e mostrino il fianco a critiche cavillose, ancorchè doverose. Ma la storia resiste alla prova del ricordo, ci sembra di poter concludere, perchè resistono i personaggi, resistono i temi. A conti fatti Nolan vince la prova del due, dimostrando che anche un prodotto così apertamente colluso col mercato e l'industria dell'intrattenimento può sempre veicolare un'ispirazione sincera perchè patita. Patita dai suoi realizzatori, e, anche e soprattutto, patita dai suoi stessi attori. Purtroppo. |