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id.,
Usa, 2001
di Ron Howard, con Russell Crowe, Ed Harris, Jennifer
Connely, Christopher Plummer, Paul Bettany
A Beautiful Mind è un film che richiede di essere decifrato,
che suggerisce un'operazione di scrematura e di frantumazione della
pesante retorica che giocoforza lo ammanta con il consueto pachidermico
fardello tipico del cinema hollywoodiano mainstream.
Un film sulla concomitanza tra due sguardi; che si estende a due modi
di intendere il cinema, uno addomesticato l'altro emancipato;due filosofie
di percezione che si sfidano per prevalere una sull'altra, che si superano
a vicenda, s' intrecciano e poi finiscono per convivere incastonate
nello stesso testo (filmico) e nella stessa testa.
La testa appartiene a John Nash, schizofrenico genio matematico abile
nel decriptare codici dissimulati tra le maglie di una superficie significante
ma respingente. Nash riesce a giungere ad un secondo livello di significazione,
ad inserirsi come una lama tagliente e furtiva nel sentiero offuscato
che conduce al nucleo delle cose; ad isolare gli schemi ricorrenti che
l'occhio troppo disciplinato non riesce a captare.
Nash osserva, scruta l'oggetto: i caratteri, le parole, le figure, la
realtà, il mondo. E lo aggredisce guardandolo, lo ipnotizza e
lo penetra costringendolo a rivelarsi, a confessare la sua connotazione.
In poche parole John Nash ri-trasforma l'oggetto della sua attenzione
riconsegnandogli la sua essenza originaria, quella abilmente ( e abitualmente)
celata da un approccio scopico innocuo e svogliato.
Il processo messo in atto dal protagonista si compie in virtù
dello squilibrio che lo pervade, figlio della malattia di cui soffre
e che lo conduce ad una estremizzazione della sua creatività
visiva. Il suo potere di guardare oltre, infatti, si ripercuote patologicamente
in una stanza chiusa: il suo cervello, il quale diviene vittima della
sua stessa dote, una dote che lo induce a condire la realtà con
delle presenze umane fittizie, necessarie al suo equilibrio interno,
ma sbagliate da un punto di vista medico e sociale.
A destabilizzare la sua armonia artefatta contribuiscono due elementi,
uno dei quali, la paura, scaturisce dalla minaccia illusoria della sua
incolumità fisica. Lo sbilanciamento geniale del suo sguardo
provoca un trauma psichico sollecitato dall'attrito tra due vaneggiamenti:
quello primario prodotto dalla sua dissociazione congenita per la quale
crede di essere stato chiamato a svolgere un delicato compito spionistico
per conto del governo; e quello subordinato, un delirio interno al cortocircuito
mentale principale che gli fa credere di essere vittima di complotti
e sparatorie. L'altro fattore che sconquassa il suo equilibrio, ovvero
il ricovero coatto nell'ospedale psichiatrico dove viene sottoposto
ad elettroshock, attesta il ripudio della società assennata verso
la sua indisciplinata e pericolosa destrezza percettiva che da quel
momento in poi verrà attenuata chimicamente.
Il successivo periodo di convalescenza, prima del rifiuto di assumere
i farmaci, costituisce la parte più asciutta e drammatica del
film: l'alienazione di John è intorpidita ma brulica nella sua
mente, nella casa, nella convivenza coniugale; come una bestia feroce
legata e narcotizzata, è sul punto di risvegliarsi e tornare
verso il suo habitat percettivo.
Ma si tratta solamente di un rigurgito provvisorio prima del definitivo
assorbimento di John nella struttura regolata del college, dove finirà
per entrare nel corpo insegnante convivendo abbastanza agevolmente con
la sua malattia. John Nash finirà dunque per vedere attuati in
se stesso i medesimi criteri innovativi da lui sviluppati nel campo
della teoria economica e dei giochi, che negano la necessità
di una prevalenza tra due o più unità in competizione.
In lui finiscono per convivere sia la visione oggettiva che quella schizofrenica
e, curiosamente, ciò avverrà anche grazie all'amico- rivale
della gioventù ora divenuto preside del college in cui entrambi
studiarono, a testimonianza dell'ennesimo pareggio tra due caratteri,
schivo quello di John, sfrontato quello dell'amico, e di due mentalità.
Questa coesistenza tra due unità priva di un predominio definitivo
di una rispetto all'altra, si riflette anche sul testo filmico nella
sua globalità poiché A Beautiful Mind, alla fin
fine, si presenta come prodotto tipicamente mirato a suscitare un laccato
senso di patetismo soprattutto quando il film assorbe tutti i cliché
della biografia, che permettono di confezionare un finale segnato dalla
rivincita simbolica ( la consegna delle penne) del protagonista sui
tormenti vissuti durante la sua esistenza.
In conclusione, fissando l'oggetto-film con la stessa applicazione con
cui John Nash cerca i suoi codici, possiamo accorgerci della inevitabile
compresenza, nel cinema americano di marca smaccatamente nazional-popolare
come quello firmato da Ron Howard, di uno sguardo ambivalente: quello
ridondante e patetico del film biografico e pietista che circonda un
nucleo che invece non accetta una puerilità della percezione
ma cerca di spingersi dentro l'oggetto, ovvero la realtà, ovvero
il mondo, alla ricerca di una visione più estrema che, con il
rischio di risultare schizofrenica, riesca a spingersi oltre i recinti
di una struttura rigida. |