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About Schmidt,
USA, 2003 di Alexander Payne, con Jack Nicholson,
Kathy Bates
Forse sarebbe ora di rifare il punto sulla situazione del cinema dautore
in America, se non altro perché tutto quello che bolle nella
pentola di quel gigante produttivo inevitabilmente si ripercuote sulle
cinematografie del resto del mondo, nella loro varietà tutte
comunque orbitanti intorno al catalizzatore hollywoodiano. Quando si
dice cinema dautore non intendiamo citare né i mostri sacri
(Coppola, Scorsese, Spielberg, Lucas, Cimino, Altman, Allen, Mann, Eastwood),
oramai ineludibili anche per le antologie universitarie, né i
cineasti dimportazione, perfettamente integratisi nell ingranaggio
produttivo statunitense o rimasti gloriosamente ai suoi margini (Jackson,
Forman, la Campion, Cronenberg, Weir, JohnWoo, Ang Lee). Non parliamo
nemmeno di registi troppo segnati dalla vicinanza al Sundance o all
underground (Jarmusch, Ferrara, Solondz). Ci riferiamo piuttosto a quel
gruppo di cineasti più o meno formatisi a metà anni novanta,
cresciuti con le parole d ordine del decostruzionismo e del post
modern, che hanno fondato la loro riflessione sul cinema proprio su
quel fattore davanti al quale si sono spesso impantanati i grandi degli
anni settanta-ottanta, vale a dire l assoluta autoreferenzialità
dell immagine. Laddove in questi ultimi si avvertiva (si avverte)
ancora la malinconica constatazione di non poter insufflare la carnalità,
la corporeità nei fotogrammi di celluloide, di non riuscire ad
identificare una forma, una struttura del reale, ora in autori come
Mendes, Haynes, i due Anderson si può invece trovare la volontà
di costruire la propria polemica contro le ambiguità ideologiche
del grande paese proprio sulla pericolosa evanescenza dell immagine
e dello guardo che le sostiene. Non esistono una verità o una
sostanza nascoste dietro la materia bruta mostrata, ma solo costrutti
culturali, da smontare continuamente e denunciare nella loro perniciosa
inefficacia e non è un caso che tutti i registi citati non siano
affatto spaventati dall usare la patinatura o la levigatezza formale,
magari in funzione straniante e con il ricorso alle grammatiche di genere,
vero e proprio magazzino di iconografia in movimento. Fino ad ora la
commedia, un tempo punto di forza dellautoriflessività
americana aveva fatto la parte dell anatra zoppa, vuoi per la
notevole importanza della scrittura , vuoi per la continua attenzione
al quotidiano, al sociale, insomma alla realtà richiesta dal
genere. Per fortuna poi Wes Anderson e ora Alexander Payne hanno brillantemente
(senza alcuna ironia) riscoperto l acqua calda, vale a dire che
la commedia a Hollywood non ha mai fatto le bucce alla realtà
quotidiana, casomai ad un modo collettivo di percepirsi, che il cinema
con la sua aura mitografica aveva esaltato nelle sue componenti ideologiche
più appariscenti. Quindi smontare la commedia classica oggi vuol
dire fare decostruzione di una decostruzione, messa in abisso raddoppiata
tanto per constatatre vieppiù che in America lo sguardo (non
importa se individuale o collettivo) parli solo di sé stesso
a sé stesso e sia inviluppato in una sorta di vortice affabulatorio
senza via di uscita. Ed ecco il dramma del signor Schmidt, di un Jack
Nicholson continuamente in lotta più che con la sua realtà
di pensionato vedovo e annoiato, con l idea della morte e con
la leggenda dei pionieri, dei padri fondatori. Un fantasma quello di
Schmidt tanto più forte in quanto prodotto dell inconscio
collettivo, della stessa mentalità diffusa in cui è immerso
e non solo di una suggestione individuale. E qui Payne degli ingredienti
che costituiscono la commedia classica valorizza il più forte
e rischioso, vale a dire il comico puro, lo scardinamento di ogni ordine
razionale e societario. Lo fa nelle gag, la cui corporeità violenta
in alcuni casi si avvicina alle più ruvide guasconerie dei Farrelly
(anche se con unamarezza e sgradevolezza decisamente maggiori).
Lo fa soprattutto nella personale rilettura del mito di Nicholson attore,
il cui personaggio eponimo ha una carica violenta così eversiva
e radicale da perdere ogni connotato ambientale riconoscibile. Laddove
infatti i grandi epigoni di Jack (da Penn a Norton) costruiscono delle
figure di nevrotici socialmente ancora riconoscibili il nostro incarna
invece un fool completamente astratto, surreale nella sua demenza isterica
(forse l unico che potrebbe rileggerne i ruoli a tuttoggi
è Jim Carrey, guardacaso un comico). Schmidt è surreale
nella sua sconfitta proprio per la completa incompatibilità del
mito Nicholson con tutti gli ambienti in cui capita e questa assoluta
irriducibilità ad ogni location in cui questo omino dimesso e
incarognito viene sbattuto nelle sue peregrinazioni per lAmerica,
da agli ambienti stessi il tono del falso, dell impostura, del
fondale. Ma Payne non si limita a questo nel suo lavoro con Nicholson:
del monumento illumina un altro lato poco appariscente dietro l
euforia isterica del ghigno e del sopracciglio rialzato. Nicholson è
un loser, rappresenta unAmerica sconfitta, senza ragioni, folle
perché da sempre smarrita, senza punti di riferimento plausibili.
Settant anni fa Mr Smith poteva andare a Washington a sfidare
il Congresso, conscio delle sue ragioni, oggi Mr Schmidt va a Denver
per far saltare il matrimonio della figlia, con il segreto timore di
essere un uomo e un padre fallito. Quantomeno si è abbassato
il tiro delle ambizioni e forse anche il Grande paese sta invecchiando.
E il patetico tentativo di Schmidt di mettersi sulla strada con il suo
camper assomiglia più ad un grottesco naufragio che ad un viaggio
dall epos fordiano. Probabilmente in questo caso il modello di
riferimento è Alvin Straight, anche lui vecchio che può
coniugare il suo viaggio soltanto a ritroso e che deve acquisire la
consapevolezza di tutte le brutture che costellano la sua vita. Ma al
pellegrinaggio di Straight, cowboy, eroe costitutivo dell immaginario
statunitense è consono un tono di malinconia elegiaca, alla deriva
di Schmidt, travet e perdente solo una serie di disavventure tragicomiche,che
la regia asseconda con un tocco surreale e quasi ellittico, lubitschiano
(anche se con ben maggiore virulenza). Certo, la pellicola risulta più
scritta che girata e lievemente ingessata nelle tesi di partenza, ma
Payne ha il grande merito di sintetizzare perfettamente nel suo Schmidt
tutto il percorso attoriale di Nicholson dalle comparsate con Corman
ad oggi. Raramente la fisiognomica stessa di un interprete si fa metafora
visuale, paesaggio interiore non solo della psiche di un singolo, ma
anche della condizione umana nel suo complesso. I primi piani devastanti
cui Nicholson si sottopone ripropongono trent anni di ritratti
di falliti segnati dallisteria e dalla demenza, ma anche una paradossale,
dignitosissima consapevolezza. Non a caso proprio un capriccio narcisistico
di Schmidt porta alla salvezza di un bambino adottato a distanza, Ndugu.
Fuor di metafora, lo straziante pianto finale del protagonista non è
una scivolata sentimentale, ma il dono che tutte le figure tratteggiate
da Nicholson fanno del loro fallimento. Il futuro di Ndugu così
si sostanzia proprio nel fallimento di Schmidt, nella generosa vitalità
che trabocca anche di puro egoismo. Proprio come accadeva a Mc Murphy
nel Nido del Cuculo. |