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Lost in Translation,
Usa, 2003 di Sofia Coppola, con Bill Murray, Scarlett Johansson, Giovanni Ribisi Dopo le spocchiose pretenziosità de Il giardino delle vergini suicide, Sofia Coppola ha cambiato registro, e ha scelto la via della linearità narrativa e della coerenza estetica; la storia di questo suo nuovo, poetico film è infatti piccola, quasi banale: Lost in Translation parla di un uomo e una donna, entrambi a modo loro soli, che si trovano in un paese straniero, di cui non riescono a penetrare e a comprendere la cultura. Attraverso una serie di incontri, di appuntamenti e di parole non dette, tra i due pian piano nasce un sentimento difficile da esprimere, da manifestare, ma impossibile da ignorare. A fare da sfondo a questa love story, le luci ed i suoni assordanti di Tokio, tripudio per gli occhi e perciò luogo neutro in cui poter (o dover) annullare emozioni, sentimenti, affetti. La storia del film è tutta qui, e raccontata in poche righe potrebbe non sembrare neppure interessante. Ed infatti Lost in Translation non è unopera particolarmente originale né tanto meno innovativa da un punto di vista linguistico: il suo grande pregio è però quello di avere poche linee-guida e di seguirle con coerenza, scioltezza e grande senso poetico. La prima idea portante del film è quella di attaccarsi completamente ai due protagonisti, e di seguirli senza deviazioni o voli pindarici: e già questa intenzione risulta pienamente valorizzata da un Bill Murray assolutamente in stato di grazia e che da solo, nella prima mezzora di film, riesce a creare unatmosfera di rara raffinatezza e ironia. La Coppola lascia completo spazio di manovra a questo grande caratterista, capace di far ridere e di intenerire con uno sguardo sornione e malinconico, oppure con un abbozzo di sorriso. Da perfetto contraltare ecco poi Scarlett Johansson, bellissima ed eterea, a formare una coppia vivace, stralunata, insomma poetica. La regista sceglie un tipo di messa in scena non invasivo, raffinato nel suo equilibrio; il risultato è unopera pienamente riuscita, che ha il suo punto di forza in una prima mezzora in cui il set-up dei personaggi è un susseguirsi arguto e brioso di gag e di atmosfere intense. Bisogna ammettere che lo sviluppo della storia tra i due protagonisti, soprattutto nella parte centrale, risente di un incipit così folgorante, e non riesce a mantenere un registro altrattanto alto per tutta la durata del lungometraggio; a farci amare ancor di più Lost in Translation arriva però un finale intenso e veramente commovente, che inaspettatamente risolleva ed entusiasma. Alla fine, il giudizio complessivo sullopera e sulla sua autrice, molto maturata rispetto allesordio, non può che essere positivo: soprattutto lodiamo la Coppola per lintelligenza con cui ha saputo nuovamente valorizzare il talento di Bill Murray, che con questo film prepotentemente si afferma come attore di razza. E nostro eroe personale. |