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Lost in translation - l'amore tradotto

Due americani a Tokio
di Adriano Ercolani


Venezia 60 - 2003
  Lost in Translation, Usa, 2003
di Sofia Coppola, con Bill Murray, Scarlett Johansson, Giovanni Ribisi


Dopo le spocchiose pretenziosità de Il giardino delle vergini suicide, Sofia Coppola ha cambiato registro, e ha scelto la via della linearità narrativa e della coerenza estetica; la storia di questo suo nuovo, poetico film è infatti ‘piccola’, quasi banale: Lost in Translation parla di un uomo e una donna, entrambi a modo loro soli, che si trovano in un paese straniero, di cui non riescono a penetrare e a comprendere la cultura. Attraverso una serie di incontri, di appuntamenti e di parole non dette, tra i due pian piano nasce un sentimento difficile da esprimere, da manifestare, ma impossibile da ignorare. A fare da sfondo a questa love story, le luci ed i suoni assordanti di Tokio, tripudio per gli occhi e perciò luogo “neutro” in cui poter (o dover) annullare emozioni, sentimenti, affetti.
La storia del film è tutta qui, e raccontata in poche righe potrebbe non sembrare neppure interessante. Ed infatti Lost in Translation non è un’opera particolarmente originale né tanto meno innovativa da un punto di vista linguistico: il suo grande pregio è però quello di avere poche linee-guida e di seguirle con coerenza, scioltezza e grande senso poetico. La prima idea portante del film è quella di attaccarsi completamente ai due protagonisti, e di seguirli senza deviazioni o voli pindarici: e già questa intenzione risulta pienamente valorizzata da un Bill Murray assolutamente in stato di grazia e che da solo, nella prima mezz’ora di film, riesce a creare un’atmosfera di rara raffinatezza e ironia. La Coppola lascia completo spazio di manovra a questo grande caratterista, capace di far ridere e di intenerire con uno sguardo sornione e malinconico, oppure con un abbozzo di sorriso. Da perfetto contraltare ecco poi Scarlett Johansson, bellissima ed eterea, a formare una coppia vivace, stralunata, insomma poetica. La regista sceglie un tipo di messa in scena non invasivo, raffinato nel suo equilibrio; il risultato è un’opera pienamente riuscita, che ha il suo punto di forza in una prima mezz’ora in cui il set-up dei personaggi è un susseguirsi arguto e brioso di gag e di atmosfere intense. Bisogna ammettere che lo sviluppo della storia tra i due protagonisti, soprattutto nella parte centrale, risente di un incipit così folgorante, e non riesce a mantenere un registro altrattanto alto per tutta la durata del lungometraggio; a farci amare ancor di più Lost in Translation arriva però un finale intenso e veramente commovente, che inaspettatamente risolleva ed entusiasma. Alla fine, il giudizio complessivo sull’opera e sulla sua autrice, molto maturata rispetto all’esordio, non può che essere positivo: soprattutto lodiamo la Coppola per l’intelligenza con cui ha saputo nuovamente valorizzare il talento di Bill Murray, che con questo film prepotentemente si afferma come attore di razza.
E nostro eroe personale.